Per una
giustizia autonoma e indipendente
di Pierluigi Onorato
Se oggi si convocano tante assemblee e tanti
convegni sull’autonomia e indi- pendenza della
magistratura è perché, evidentemente, si percepisce diffusa- mente che
quest’autonomia è in pericolo. Ed è in pericolo perché subisce un attacco
martellante e sistematico da parte dell’attuale maggioranza di governo.
Gli strumenti utilizzati per questa strategia aggressiva del potere
politico ver- so la giurisdizione sono molteplici. Alcuni sono noti a
tutti, a cominciare dall’a- buso della funzione legislativa per gli
interessi privati di alcuni imputati eccel- lenti. Il parlamento ha
legiferato con l’intenzione palese e dichiarata di condi- zionare l’esito
dei noti processi di Milano: prima «sottraendo»
ai giudici le leggi che dovevano applicare (v. sostanziale
depenalizzazione del falso in bilancio), poi «sottraendo»
loro le prove (v. legge sulle rogatorie), infine «sottraendo»
il processo (v. legge Cirami sul legittimo sospetto).
Raschiato così il fondo del barile delle possibilità legislative si sono
adottati mezzi d’intervento tatticamente più articolati e flessibili.
Molti, e in particolare il presidente Berlusconi, hanno manifestato
fiducia nella decisione della Cassa- zione, che doveva giudicare
sull’istanza di rimessione per legittimo sospetto del processo milanese,
mostrando ottimismo e facendo credito alla imparzialità del supremo
consesso giudiziario, ma anche cercando di conquistarne la benevo- lenza.
Non è spiegabile altrimenti che con la captatio benevolentiae la
complessa manovra che punta sulla rivalutazione del ruolo della Cassazione
a scapito del C.S.M., sull’innalzamento dell’età pensionabile (per
favorire la permanenza dei magistrati con alti incarichi direttivi) e sul
miglioramento del trattamento eco- nomico.
Ma questa tattica è condizionata dalle contingenze. La Cassazione è
affidabile quando solleva incidente di incostituzionalità sulla norma
vigente che discipli- na la rimessione dei processi, accogliendo
l’eccezione della difesa (art.45 c.p. p.). Diventa improvvisamente
parziale e inaffidabile quando, ritornato il pro- cesso dalla Consulta al
Palazzaccio, respinge nel merito l’istanza avanzata da Berlusconi e
Previti per la rimessione del processo da Milano e Brescia.
A questo punto si registra una indubbia
escalation, che vede intensificarsi quel- la operazione culturale
diffusa (un vero e proprio battage) che tende ad amputa- re il
ruolo della magistratura e ad assolutizzare quello del parlamento. Aveva
iniziato il ministro della Giustizia Castelli lanciando l’interpretazione
perversa del principio costituzionale «la
giustizia è amministrata in nome del popolo»,
giocato contro l’altro principio costituzionale «la
legge è uguale per tutti».
Ora scende in campo lo stesso Berlusconi, che, in partenza per gli Stati
Uniti, sente la necessità di lanciare un vero e proprio proclama alla
nazione, in cui la- scia cadere affermazioni a dir poco preoccupanti.
Nella videocassetta registrata dice: «In
una democrazia liberale i giudici applicano la legge, non fanno politica e
non fanno resistenza, resistenza, resistenza a chi è stato scelto dagli
elettori a governare».
E ancora «Il governo è
del popolo e di chi lo rappresenta, non di chi avendo vinto un concorso ha
indossato una toga».
Infine auspica una giu- stizia «davvero
amministrata in nome del popolo italiano e non in nome e per conto di una
parte politica».
Ciò che rende eticamente insopportabile e culturalmente insidiosa la
mistifi- cazione che percorre simili proclami è che essi sono intitolati
alla democrazia liberale. Demistificarli non è semplice, perché comporta
una critica radicale a una scorretta concezione della giurisdizione e
della democrazia, che è molto diffusa (in modo chiaro o latente) nel ceto
politico, anche esterno al centro de- stra, e nel senso comune.
L’autentica democrazia liberale delegittima l’onnipotenza della politica
e della volontà popolare, imponendo vincoli costituzionali che sono
indisponibili non solo per le maggioranze parlamentari ma per la stessa
sovranità popolare (la li- bertà e dignità della persona, il ripudio della
guerra come strumento di risolu- zione delle controversie internazionali,
e altri simili, sono valori che non posso- no essere violati dalle
decisioni politiche, sono considerati come vincoli esterni della
sovranità).
La democrazia liberale costituisce il diritto come
«limite»
del potere, oltre che dei singoli cittadini. In una democrazia liberale
neppure i governanti, i parla- mentari, i capi di stato sono legibus
soluti. Anche se esistono istituti volti a ga- rantire l’autonomia
delle funzioni parlamentari e di governo, essi non arrivano mai alla
sostanziale impunità pretesa dal populismo dilagante: in Gran Breta- gna
un parlamentare già ministro è stato condannato senza condizionale per un
reato insignificante; in Germania il cancelliere Khol è stato costretto
alle dimis- sioni quando rimase coinvolto nello scandalo di illeciti
finanziamenti al suo partito; nei paesi anglosassoni, i ministri in carica
non arrivano davanti ai giudi- ci solo perché esiste la consuetudine delle
dimissioni politiche davanti alle ac- cuse pubbliche. In una democrazia
liberale, quando si tratta di reati comuni, i politici accusati si
difendono davanti ai giudici, come sta facendo Andreotti; non si fugge dal
processo delegittimando i magistrati, come fa solo chi non ha mai
assimilato i princìpi liberaldemocratici o è abituato ad utilizzarli solo
op- portunisticamente.
Ma su questi princìpi, riassumibili nel primato del diritto sulla
politica, il ceto politico è stato spesso incerto, opportunista, immaturo.
Anche la sinistra, pur avendo recentemente preso coscienza dei limiti
della politica, non è esente da vischiosità culturali del passato, da
tic persistenti, da tentazioni regressive.
Ecco perché, in una democrazia liberale, amministrare la giustizia in
nome del popolo non significa che i rappresentanti del popolo sono
superiori alle leggi e insindacabili dalla giurisdizione – come si
vorrebbe insinuare: varie norme della Costituzione lo impediscono. Non
significa neanche che la giurisdizione deve interpretare politicamente la
legge secondo la volontà della maggioranza parla- mentare del momento.
Secondo Costituzione i giudici sono soggetti «soltanto»
alla legge, cioè alla volontà parlamentare che si è oggettivata
nell’ordinamento giuridico, non alle volontà soggettive parlamentari che
possono esprimersi su vari temi senza tradursi in diritto vincolante.
Oltre tutto, se i giudici dovessero interpretare la legge secondo le
indicazioni della contingente maggioranza par- lamentare, sarebbe
vanificata in radice la certezza e la stabilità del diritto, e a- vremmo
una giurisprudenza che cambia ad ogni mutamento elettorale.
Ecco perché in una democrazia liberale i giudici che applicano la legge e
per- seguono il crimine, possono arrivare a fare resistenza a chi è scelto
dagli eletto- ri per governare, se questi prevarica dalle sue funzioni e
insidia l’autonomia della giustizia o addirittura delinque.
Infine, in una democrazia liberale i giudici applicano la legge dopo
averla in- terpretata. Solo una concezione giacobina e populista della
democrazia preten- de di sottrarre ai giudici il potere-dovere di
interpretare le norme; e fa dei giudi- ci una semplice bouche de la loi
perché ha paura della loro indipendenza. Oltre tutto, il giudice
«bocca della legge»
è anche tecnicamente impossibile in un or- dinamento complesso come quello
moderno, dove coesistono molteplici livelli di fonti di produzione
giuridica (regionale, statale, costituzionale, europeo, in- ternazionale)
e dove anche dentro lo stesso livello le norme si susseguono in modo
estremamente farraginoso, caotico e incoerente, sicché il giudice che
debba individuare la norma giuridica applicabile al caso concreto non può
pre- scindere da una opera di interpretazione, spesso molto impegnativa e
persino lacerante.
Ma l’attacco contro l’autonomia della giurisdizione passa anche
attraverso l’accusa di politicizzazione dei giudici, tanto più insidiosa
quanto più diffusa e capace di acquisire semplicistici consensi. Su questo
tema il compito di demi- stificazione è forse più difficile, ma tanto più
è urgente.
A tale scopo si deve non più fare appello ai princìpi della democrazia
liberale, ma rintracciare con intelligenza le implicazioni della
democrazia sociale. Per non equivocare sulle parole, teniamo presente che
alle democrazie borghesi di stampo liberale, affermatesi nell’Ottocento
occidentale intorno al principio di eguaglianza formale davanti alla legge
(«tutti sono uguali
davanti alla legge»),
nel secolo ventesimo sono storicamente subentrate le democrazie di massa
di stampo socialdemocratico, che hanno integrato il principio liberale col
princi- pio di eguaglianza sostanziale («è
compito della Repubblica rimuovere gli osta- coli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’egua- glianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’ef-
fettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economi- ca e sociale del Paese»).
Questa evoluzione storica della democrazia è gravida di conseguenze, che
spesso sono rimosse o sottovalutate nella cultura pubblica, a cominciare
da quella che impone una funzione promozionale del diritto come
integrativa della sua tradizionale funzione garantista.
Ebbene, un’altra conseguenza, insieme sociologica e istituzionale, dell’avven-
to della democrazia di stampo socialdemocratico, caratterizzata – come si
dice- va una volta – dalla integrazione delle masse nello stato, è quella
che ha cam- biato il ruolo pubblico dei magistrati. Per semplificare il
discorso, basterà osser- vare come in una società preindustriale o
protoindustriale il magistrato poteva frequentare il parroco e il
farmacista del paese o partecipare al Rotary club sen- za perdere la sua
«maschera»
pubblica di magistrato indipendente. In una so- cietà postindustriale
anche il magistrato che frequenta le case del popolo o i sindacati non
deve (non dovrebbe) essere percepito come magistrato che ha perso la sua
indipendenza. Di più. In una società altamente complessa e in un
ordinamento che fa sempre più spazio alle dimensioni materiali
dell’esperienza giuridica, il magistrato non deve astrarsi dalle
problematiche del suo tempo, ma anzi è spinto a partecipare al dibattito
pubblico allargato, a frequentare conve- gni e discussioni (anche dei
partiti) per poter più coscientemente assolvere alla sua funzione
giurisdizionale: sempre col dovere evidente di mantenere un so- brio stile
istituzionale, alieno da faziosità e da passionalità partigiane.
In questo mutato quadro istituzionale e sociale, allora, l’indipendenza
del ma- gistrato deve essere assicurata e valutata solo in base alla
«oggettività»
dei suoi provvedimenti e dei suoi
comportamenti giudiziari, non in base alla «soggetti-
vità» della sua figura
e delle sue frequentazioni: in altri termini secondo il
«tipo degli atti»
e non secondo il «tipo
d’autore». Ancora più
esattamente, l’indipen- denza del magistrato deve essere valutata in base
alla «tenuta
istituzionale»
delle sue decisioni, cioè secondo la congruità delle sue
motivazioni e il suo sforzo critico di interpretare e applicare il
diritto, non in base alle «conseguen-
ze» sociali o politiche
di quelle decisioni.
Tutto ciò certamente presuppone un’opinione pubblica e soprattutto una
stampa e una televisione più mature di quelle correnti. Ma la qualità e la
consi- stenza di una democrazia si misura anche e soprattutto su questa
capacità. Più di mezzo secolo addietro Antonio Gramsci additava la
inevitabilità di «istitu-
zioni raffinate».
L’autonomia del potere giudiziario, come strumento di garan- zia e di
raccordo tra società civile e stato-apparato, è una di queste. Ma le isti-
tuzioni raffinate non possono reggersi se non sono supportate da una
cultura pubblica altrettanto raffinata e matura.
Sotto questo profilo, anche la cultura di sinistra non può dirsi
all’altezza dei tempi. Sono ancora troppo pochi gli uomini dei partiti e
dei mass-media, per non parlare dei semplici cittadini, che sanno
sottrarsi al riflesso condizionato di criticare le decisioni della
magistratura solo in base alle loro conseguenze socia- li e politiche,
senza farsi carico della ineludibile dimensione istituzionale.
Il raggiungimento, almeno tendenziale, di questa maturità critica è un
obietti- vo urgente per la crescita e il consolidamento della nostra
democrazia. Se que- sta maturità fosse già acquisita, o almeno avvicinata,
diventerebbe democrati- camente più proficua la critica pubblica
(imprescindibile) delle decisioni giudi- ziarie; e sarebbero possibili
anche un’analisi e una coscienza sociale più ade- guate delle
«politicizzazioni»
che le inquinano. Potremmo allora scoprire che le storture
«politiche»
della giurisdizione si annidano spesso proprio in quelle de- cisioni che
l’attuale maggioranza di governo ha gradito e osannato. Per esem- pio, la
recente decisione con cui le sezioni unite della Cassazione hanno rimes-
so alla Consulta la questione di costituzionalità della norma sulla
rimessione dei processi, era «politicamente»
condizionata laddove evitava di accertare e motivare se la questione era
rilevante, ovverosia se la sede giudiziaria milanese era legittimamente
sospettabile. Prima ancora, era giuridicamente scorretta, e perciò
«politicamente»
condizionata, quella sentenza della corte di cassazione che assolveva nel
merito Berlusconi dopo che la corte d’appello aveva dichia- rato prescritto
il suo reato, con ciò motivatamente ritenendolo sussistente.
Se questa maturità fosse acquisita, infine, sarebbe impostata in modo
demo- craticamente più corretto la discussione già avviata sulle
conseguenze politiche di un’eventuale condanna in primo grado di
Berlusconi nel processo pendente a Milano. Rutelli ha dichiarato nella
trasmissione televisiva «Porta
a Porta» che il
presidente del Consiglio, se condannato, non deve dimettersi, perché vige
la presunzione di innocenza sino alla condanna definitiva. Si ignora che
la presun- zione di innocenza è un principio vigente nel sistema
giudiziario, ma non vale per il sistema politico, in cui vige il ben
diverso principio di responsabilità e di fiducia democratica. Il problema
da porsi correttamente è quindi se un presi- dente del Consiglio
condannato in primo grado per una corruzione in atti giudi- ziari commessa
prima di assumere il suo incarico, possa ancora godere della fi- ducia
democratica o debba invece dimettersi per assicurare la fiducia nelle
isti- tuzioni. E’ questa una valutazione politica che non ha niente a che
fare con la presunzione giudiziaria di innocenza.
Questi delicati equilibri tra potere giudiziario e potere politico
richiedono, co- me si può capire, una cultura istituzionale adeguata alla
complessità «raffinata»
della forma di stato e di governo moderna. Ma la gestione di questi
equilibri è diventata precaria e pericolosa da quando, dopo i
processi di Mani Pulite, este- se porzioni di ceto politico e
amministrativo si sono sentite sotto accusa, e an- cora di più da quando
il leader del centro-destra e alcuni suoi stretti collabora- tori sono
stati formalmente incriminati e processati per gravi reati. Da allora la
strategia di aggressione contro l’indipendenza della magistratura s’è
fatta più martellante e spregiudicata. La partita in gioco nelle ultime
elezioni nazionali e- ra proprio questa. Molti non l’hanno probabilmente
capito. Altri l’hanno capi- to, ma hanno creduto di poter giocare quella
partita, non tanto conquistando la maggioranza, quanto semplicemente
resistendo come minoranza parlamentare. Il risultato è stata la vittoria
elettorale del centro-destra, con la conseguenza prevedibile che secoli di
civiltà giuridica stanno per andare in fumo.
maggio 2003
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