A. Battista Sangineto: Il senso dei luoghi di Vito Teti, Donzelli Editore, 2004

 

 

 

 

 

 

 

Un giorno, uno qualunque, apri un libro e ti viene incontro un amico che ti prende sottobraccio e ti conduce in luoghi dove sei già stato, ma che non hai visto oppure in luoghi che non avevi mai visitato, eppure conoscevi perché di quel paese avevi già visto tutto: le chiese, le piazze, le rughe, le case, i bambi- ni che giocano per strada e, persino, i vecchi seduti a prendere il fresco davanti l’uscio di casa. Cammina, cammina, l’amico ti mostra i monti, le valli, le fiuma- re, le rovine ed i paesi della Calabria, te ne racconta la vita e, soprattutto, l’ab- bandono, la morte. Il racconto procede con lo stesso ritmo delle camminate che si fanno con gli amici: a volte spedito come per raggiungere una meta, altre lento perché l’amico ti parla, altre volte ci si ferma perché la conversazione me- rita un approfondimento, altre ancora si cammina in un silenzio pieno di signi- ficati, empatico, perché colori e odori ti s’impigliano negli occhi e nel naso.  Quell’amico affabulatore si chiama Vito Teti ed ha scritto il più bel romanzo degli ultimi anni che s’intitola “Il senso dei luoghi”, pubblicato, nel 2004, da Donzelli Editore.

Mi piacerebbe molto che s’ingenerasse l’equivoco, certo dell’approvazione dell’autore, che si tratti di un romanzo e non di un ponderoso saggio di quasi 600 pagine con altrettante foto. Il suo è un roman philosophique alla Milan Kun- dera, ma anche un romanzo sentimentale fitto di storie d’amore poetiche e di abbandoni strazianti. Un romanzo in cui l’antropologia s’è felicemente “sciol- ta” in letteratura, un romanzo la cui trama è intessuta delle storie dei tanti luo- ghi e non-luoghi di cui è caleidoscopicamente composta la Calabria. Le Cala- brie. Da una storia ne gemma un’altra e poi un’altra ancora, una storia dalla quale si espandono e si ritraggono all’infinito infinite storie, come in una recen- te teoria sul respiro dell’Universo.
  La storia dell’eccidio della famiglia dei marchesi Alberti di Pentedattilo com- piuto dal rivale barone Abenavoli del Franco o quella del quadro della Madon- na col Bambino di Mileto apparso sulla spiaggia e che gli abitanti del luogo ri- buttano in mare temendo che l’effigie porti lutti e tragedie, ma il quadro ritorna a galla finché i militesi non decidono, di fronte al miracolo, di costruire nel luo- go dell’apparizione una chiesa in onore della Madonna con il Bambino. La sto- ria, ancora, di San Teodoro che, uccidendo il drago, libera Cerenzia, dopo aver chiesto a Dio di fermare il tempo per permettergli di portare a termine l’impre- sa. C’è anche la storia, vera, dei chiodi infissi nei muri di Ghorìo di Rogudi ai quali le madri legavano con una corda i bambini, per paura che essi cadessero negli orridi burroni che delimitano il paese. Il libro, come si conviene ai roman- zi più riusciti, è popolato da straordinari personaggi come Mico Pelle (sembra davvero un personaggio inventato, ma non lo è), l’aedo contadino che canta di natura e di ‘ndrangheta, di fatica inumana e d’amore, d’occupazione delle terre e d’Ulisse allargando le mani per cercare di contenervi tutte queste storie e consegnartele in dono, per ricordo, per memoria. Quella memoria persistente, per esempio, delle Naradi, streghe cattive delle fiumare che portavano via i bambini nel loro rovinoso corso e che non sono altro che le Naiadi, dispettose ninfe delle acque cantate dagli autori antichi greci e latini.
  Quell’amico ti riprende sottobraccio e, mentre camminate, ti spiega come e perché i paesi calabresi percepiscano ed abbiano, tutti, una seconda vita altro- ve: nel passato (i popoli antichi), nelle Americhe (l’emigrazione), nell’interno (i paesi abbandonati), lungo le coste (i doppi dei paesi abbandonati). Altrove. Ti racconta che l’emigrante lascia in paese una parte del proprio io, la propria om- bra e che il paese lasciato diventa, per chi è andato via, un’ombra perduta. Ti racconta della fuga reale e metaforica delle genti di Calabria dai propri paesi, dalla regione, dalla propria storia, dalla propria memoria. Il romanzo di Teti è, anche, un potente e tragico affresco che contiene le rovine dei paesi abbando- nati e la fuga d’intere comunità in dissoluzione. Una società ed una civiltà in disfacimento, come l’impero austroungarico descritto da Joseph Roth. Dall’in- treccio d’analisi scientifica e pagine di letteratura scaturiscono con precisione i dati costitutivi della mentalità dei calabresi. Dalla lettura di questo libro s’in- tuisce quanto sia forte in Teti la volontà di non essere distaccato dall’oggetto dei suoi studi, quanto consapevole sia la scelta di non rinchiudersi nella torre dello specifico scientifico.
  In alcuni casi l’amico ti pare particolarmente ispirato, come quando si ferma per parlarti delle nuvole, quelle descritte da Alvaro, Fortunato Seminara e Francesco Perri, quelle nuvole che, veleggiando, alludono all’esodo di massa dei calabresi e che sono metafore di viaggio e di spostamento come quelle, sug- gerisce Teti, dei film di Wenders, Coppola e Ray. Le nuvole sono insieme il la- to nascosto e quello più evidente del paesaggio. Sono, insieme, inconscio e su- per io dei luoghi. Sei fermo ad ascoltarlo, rapito ed incredulo, quando ad un tratto lui si gira e ti mostra una delle immagini più belle che siano state scritte negli ultimi anni: quella delle statue dei Santi che girano per i vicoli e le strade dei paesi e che sembrano volare in alto, sopra le nuvole, come le persone che se ne sono andate. Guardate le fotografie dei Santi portati in processione e, d’improvviso, capirete anche voi.
  Le fotografie di questo volume rappresentano luoghi sospesi e persone dai tratti imprecisi, come se dovesse essere lo sguardo dello spettatore a dar loro compiutezza. Le mucche nella chiesa della vecchia Africo, il grigio abbagliante della fiumara dell’Amendolea, il marinaio ritratto nella sua casa di Pentadattilo, il fratello di Corrado Alvaro, don Massimo Alvaro, seduto al tavolo con a fian- co una colonnina tortile sulla quale troneggia, alieno, un telefono, i televisori e le lavatrici sventrati ed abbandonati nelle case di Laino Castello, la foto di Concia, la contadina musa ispiratrice di Cesare Pavese, il tramonto ripreso da Cirella Vecchia. Teti riesce a ritrarre l’anima delle persone e dei luoghi, il pave- siano “dio incarnato nel luogo”. Persone e luoghi di cui si avverte, immedia- tamente ed inspiegabilmente, nostalgia, una struggente nostalgia dell’altrove rappresentato.
  Continuando a camminare Teti ti racconta di quello snodo fondamentale della psicologia collettiva, di quella rottura antropologica che si produce quando i calabresi, di recente, sono costretti a passare da una fatica inumana all’ozio, che, invece, fino a soli pochi decenni fa era prerogativa esclusiva dei ricchi “rentiers” nullafacenti. Ti svela il percorso che ha portato i calabresi a trasfor- marsi da faticatori instancabili ad assistiti, facendo giustizia della presunta persistenza di un ”ora locale” lenta che potrebbe, e vorrebbe, fare a meno del lavoro a favore di un’altrettanta presunta vocazione all’otium, connaturata nelle popolazioni meridionali e calabresi. Annuisci vivacemente quando dice che il “locale” cui bisogna guardare è quello di oggi, non quello inesistente del passa- to. Se nell’800 era stata l’auto-esaltazione letteraria di alcuni valori che l’ar- retratezza portava con sé (la fierezza mai doma, l’orgoglio, la sobrietà, ma an- che la ritrosia e l’ombrosità) ad impedire che si formasse una salda e positiva i- dentità culturale, sembra che ora la si voglia sostituire con l’auto-esaltazione i- deologica della arretratezza sostenendo che essa, oltre che portare miseria e di- soccupazione, sia in grado di veicolare, però, anche una cultura profondamente antagonista. Una cultura ed una società fatte di tempo meridiano, di lentezza, di vite scandite da tempi che escludono il profitto, prefigurando, così, una so- cietà pienamente anticonsumistica e salvifica. Vito Teti e, più modestamente, io crediamo che il bel tempo antico sia un mondo che avrebbe dovuto cambia- re, è vero, senza i traumi dell’emigrazione e dell’abbandono che si sono verifi- cati in tempi recenti. Un mondo che, però, non deve essere né mitizzato, né ne- gato, ma reinterpretato e riguadagnato alla nostra vita contemporanea come in- dispensabile elemento identitario e di ricchezza psicologica individuale e col- lettiva
  Aggiungo che il ricordo recente delle fatiche avrebbe dovuto far giustizia an- che delle barzellette sull’indolenza dei calabresi come le molte raccontate, per esempio, da un comico calabrese (non sarà un ossimoro?) che, in virtù d’alcune comparsate televisive, ha goduto quest’estate della sponsorizzazione della Re- gione Calabria. Chi ci governa, evidentemente, si diverte a far rappresentare i propri conterranei come degli scansafatiche costituzionali.
  Riprendendo a camminare, Vito Teti ti suggerisce la ragione profonda dell’in- compiutezza delle migliaia di case-palazzi calabresi finite solo per un piano o due e prive d’intonaco all’esterno. La casa, per i calabresi, è il centro del centro del mondo che è il paese. L’interno della casa è, innanzitutto, un luogo d’acco- glienza, introiettato come un rifugio dopo tanta storia di precarietà e miseria mentre l’esterno è non-finito, incompiuto perché non riguarda noi, riguarda gli altri che sono esterni a noi, trasformando, così, la casa anche in un luogo di esclusione. Questo rapporto interno/esterno - che non riguarda solo la casa - rappresenta, forse, la piega più riposta della nostra anima di calabresi, fa parte delle nostre ombre e, aggiungo io, di quell’inconscio collettivo non rimosso che andrebbe analizzato, riportato alla luce del conscio ed in qualche modo assor- bito, dopo averne sterilizzato la carica negativa.
  Ti commuovi quando ti parla dell’osteria nei pressi di S. Nicola da Crissa, suo paese natale, e dell’ultima bevuta che racconta esservi avvenuta con le persone amate della sua vita che non ci sono più. Una forte emozione ti coglie quando Teti, nella scuola elementare abbandonata di Laino Castello, lascia il tuo brac- cio per chinarsi a raccogliere un quaderno fra i tanti sparsi per terra e se lo met- te in tasca, perché, ti dice, quel quaderno a righe pieno di vocali è come una lettera d’addio ad un luogo che si lascia per sempre e merita, quindi, di essere custodito come un bene prezioso. Hai gli occhi lucidi mentre leggi, quasi al ter- mine del libro, lo struggente e densissimo dialogo sulla morte che Teti intrat- tiene con sua madre, mentre passano in treno da Cirella Vecchia, uno dei tanti paesi morti di questa terra.
  Giunto alla fine della lunga camminata ti rendi conto che avresti bisogno an- che tu, come Teti, di un’arca per custodirvi dentro tutte le cose, le immagini, i luoghi, le persone che ti sono venuti incontro e ti hanno emozionato al punto che hai voglia di ricominciare il viaggio per rivederli, per sentirli ancora. Per tua fortuna puoi farlo quando vuoi perché la tua arca è lo straordinario libro che hai fra le mani. Ti congedi dall’amico, ormai fraterno, con un abbraccio e con la convinzione acquisita che solo chi ha un luogo possa andare oltre il luogo, senza un luogo si è sempre senza luogo e sempre fuori luogo ed i calabresi sem- brano essere sempre “in fuga” dai propri luoghi. Fuggendo finiscono per non a- vere più un luogo, una memoria ed un senso dei luoghi, un’identità. Credo che si debba iniziare da questo per rifondare, ab imis fundamentis, le Calabrie. Credo che il dibattito culturale e politico debba ripartire da queste assenze perché non vi può essere futuro senza la certezza, memori di quello che si è stati, di quello che si è. Ora ed in questo luogo.
 

 

 

 

dicembre 2004