L'epilogo del
processo risorgimentale in Sicilia. Ufficialità e retroscena.
di Deanna Sardi
La
storiografia ufficiale ha ben presente da tempo che l’impresa dei
Mille, non fu una semplice spedizione avventurosa di alcuni volontari
patriottici al comando di un generale eroico, che con l’aiuto della
popolazione locale, insor- ta contro un dominio reazionario, liberò
l’Italia meridionale dal Regno borbo- nico. E’ ben noto che dietro al
fatto militare c’era stata anche una lunga pre- parazione diplomatica,
cosicché i capi della spedizione sapevano di poter con- tare
sull’appoggio del governo sardo e sul consenso del presidente del
consi- glio Cavour. Quest’ultimo, mentre pubblicamente dichiarava la
spedizione fat- to gravissimo che avveniva alle sue spalle e a quelle
delle potenze internazio- nali, agevolava la politica aggressiva del
re Vittorio Emanuele e le sue smanie espansionistiche, collaborando
con tutti i mezzi al successo della stessa. Gli obbiettivi che Cavour
ed il re si erano preposti furono raggiunti perché alla fi- ne i veri
vincitori furono i conservatori. Essi infatti scavalcarono i
democratici nella guida politica del processo risorgimentale,
decidendo il destino della nuo- va nazione.
Solo ultimamente, in seguito alla pubblicazione
di scritti e memorie di alcuni testimoni dei fatti, sono emerse
inquietanti compromissioni dei vertici politici e militari
responsabili della spedizione, che andavano ben oltre un normale ap-
poggio diplomatico, con una potenza straniera e con la Massoneria. L’Inghilter-
ra e la Massoneria meridionale ed internazionale agirono infatti
piuttosto pe- santemente con varie interferenze e soprattutto con
l’elargizione di forti som-me di denaro che servirono ad acquistare
armi, per pagare i volontari e per cor- rompere ufficiali e politici
borbonici. Vediamo punto per punto da dove questa affermazione tragga
origine, cogliendo prima di tutto quali erano gli interessi delle
varie potenze e delle singole forze interessate alla caduta dei
Borboni di Napoli.
L’interesse dello stato sabaudo
verso il Mezzogiorno era molto forte e deriva- va in parte da
questioni di prestigio, in quanto il suo possesso permetteva a
Vittorio Emanuele di potersi fregiare della corona di re d’Italia, ma
scaturiva anche da interessi concreti. Tali interessi si basavano su
una visione leggenda- ria del Mezzogiorno che lo descriveva come
paese ricchissimo di risorse natu- rali in attesa solo di ricevere un
impulso per essere adeguatamente sfruttate. Tale visione derivava in
parte dai racconti di alcuni esuli meridionali come An- tonio Scialoja,
Giuseppe Massari e Giuseppe La Farina. Lo stesso Cavour, che non era
mai sceso più giù della Toscana, era convinto di questa tesi. La
sopra- valutazione delle risorse del sud era talmente radicata da
condizionare anche la politica dei primi anni del Regno unificato,
quando non fu stanziato alcun aiuto alla sua economia, in quanto si
considerava questa parte della penisola non so- lo in grado di saper
badare a se stessa, ma anzi di essere addirittura capace di fornire
risorse economiche anche al nord. Il Mezzogiorno non ebbe quindi la
possibilità di ricoprire un ruolo nello sviluppo capitalistico
italiano, se non quello “prima di riserva finanziaria e
successivamente […di] mercato aggiunti- vo per le industrie del
nord” (1). Il governo borbonico era inoltre considerato responsabile
dell’abbrutimento della società dell’Italia meridionale, che Cavour
riteneva apatica ed inaffidabile. C’era infine un fatto contingente
che rendeva quella terra appetibile a varie potenze, e quindi anche
alla monarchia emergen- te del Piemonte. In previsione dell’imminente
taglio del canale di Suez il Mez- zogiorno si sarebbe trasformato in
una eccellente via di passaggio per i traffici commerciali dall’Europa
verso l’Oriente.
Nonostante la presenza di tutti
questi interessi che stimolavano all’interven-to, il governo
piemontese capiva che non era possibile dichiarare apertamente la
guerra al regno di Napoli perché l’imperatore francese Napoleone III
non a- vrebbe mai consentito ad attaccare Francesco II. Era necessario
dunque ricor- rere ad un altro sistema per invadere il territorio di
uno stato sovrano e di una potenza formalmente amica.
Non solo quindi la spedizione
avvenne per una precisa volontà dei vertici del Regno sardo, ma fu
addirittura l’ultimo di alcuni tentativi di un colpo di mano sul regno
di Napoli da parte di Cavour durante il triennale sviluppo della crisi
di Crimea.
Dalle memorie dell’esule siciliano
Giovanni La Cecilia si ricava il primo ten- tativo di conquista del
sud progettato da Cavour, precedente di qualche anno la spedizione
dei Mille. Secondo il La Cecilia dunque nel corso del mese di feb-
braio del 1854 Cavour si era impegnato a formare un corpo di sedicenti
volon- tari costituito da cinquecento bersaglieri e cento ufficiali
del contingente sardo vestiti in borghese. Essi, dotati di cinquemila
fucili e di un fondo spese di due milioni, avrebbero dovuto sbarcare a
Reggio Calabria e da lì avrebbero fatto in- sorgere da una parte
Messina e tutta l’isola, dall’altra gli Abruzzi e la Basilica- ta(2).
Dopo che i fucili erano già arrivati in Sardegna, luogo scelto per la prepa- razione della spedizione e si era cominciato a distribuire i
congedi ai bersaglieri, l’operazione non ebbe seguito perché si
scontrò contro l’opposizione di Napo- leone III.
Secondo il diario del generale
Giacomo Durando, conservato nel Museo del Risorgimento di Torino,
l’anno seguente, cioè nel 1855, Cavour aveva proget- tato di
dirottare verso il regno di Napoli le truppe raccolte per l’intervento
nella guerra di Crimea con uno sbarco nel golfo di Napoli. Voleva
provocare un’oc- cupazione del regno di Napoli “simile a quella
che gli anglo-francesi avevano fatto del regno di Grecia”(3). Il
Durando fece tuttavia osservare al conte che “Napoli ha dodici vapori
armati”. Solo la constatazione quindi che la Marina da guerra
napoletana era molto forte trattenne il presidente del Consiglio dal
suo proposito. “I furori bellicosi di Cavour si calmano” annotava
ancora il ge- nerale.
Ma nell’aprile del 1856 Cavour
ritornò sul progetto pensando di spedire nel Mezzogiorno la legione
anglo-italiana addestrata dagli inglesi per la guerra di Crimea e che
non era stata utilizzata. Nella mente di Cavour la Sicilia doveva
costituire una contropartita extralegale rispetto alle decisioni del
congresso di Parigi del 1856 che non aveva previsto alcun
riconoscimento in termini territo- riali alla partecipazione del
Piemonte alla guerra(4). Ma il 21 marzo 1856, D’A- zeglio,
ambasciatore sardo a Londra, dove era primo ministro Lord Palmerston,
sconsigliò Cavour dall’intraprendere questa impresa, che prevedeva
l’appoggio anglo-francese, o per lo meno il tacito assenso di entrambe
le potenze, dicendo esplicitamente che: “sarebbe stato più dignitoso
non domandare più nulla, nel timore di rifiuti accompagnati da
un’attenuazione di stima per le nostre ten- denze predatrici”.
E proseguiva constatando “Nous
avons choisi jusq’ici le bon sentier et s’il ne
nous a pas enrichis il nous a famensement bien placé en Euro-
pa” (5).
La stessa spedizione di Carlo
Pisacane, avvenuta nel giugno 1857, sembra a- ver avuto l’appoggio del
regno sabaudo, o per lo meno il suo tacito assenso. Il piroscafo
Cagliari utilizzato per la spedizione era una nave di linea diretta
verso la Sardegna. Il suo capitano fu rinchiuso nella cabina dopo la
partenza, mentre l’equipaggio fu costretto a puntare su Ponza, dove
furono liberati i prigionieri del carcere. Il motivo che fa supporre
che il Piemonte avesse appoggiato la spe- dizione è dovuto al fatto
che il piroscafo sequestrato apparteneva alla società di navigazione
Rubattino di cui il governo era un importante azionista. Inoltre
Giovanni Nicotera, braccio destro di Pisacane durante la spedizione,
era proba- bilmente sostenuto e autorizzato dal governo di Torino (6).
Infatti alcune allu- sioni contenute in una lettera della White Mario
alla Biggs indurrebbero a sup- porre che l’adesione di Nicotera al
piano di Pisacane fosse stata in qualche mo- do consigliata o
autorizzata da Cavour. Del resto nel 1856 il Nicotera, su man- dato
generico di Cavour, si era preparato a compiere un viaggio di
esplorazione in Sicilia, poi andato a monte.
Alcune potenze europee
interferirono col progetto della conquista del regno di Napoli, anche
se in via ufficiale non si conoscono accordi preliminari con il regno
sabaudo. Nell’operazione unitaria Cavour tenne costantemente saldi i
rapporti con Francia ed Inghilterra. La Francia, secondo lo schema
stabilito ne- gli accordi segreti di Plombières, e in seguito con
l’armistizio di Villafranca con gli austriaci, aveva ritenuto di
limitare alla Lombardia le conquiste del Piemon- te. Successivamente
aveva accettato che l’Italia centrale si unisse al regno sa- baudo
attraverso un plebiscito, in cambio di Nizza e Savoia, ma le
annessioni dovevano fermarsi di fronte allo stato della Chiesa.
Diverso fu l’atteggiamento dell’Inghilterra.
Il Regno Unito era desideroso
principalmente di liberarsi dell’influenza fran- cese, sua eterna
rivale, sull’intera penisola. Il governo whig temeva che
Cavour, dopo aver sacrificato la Savoia, potesse cedere alla Francia
anche Genova oppure la Sardegna in cambio del suo aiuto. Tale timore
rendeva tollerabile l’espansione del Piemonte. Il primo ministro
inglese, Gladstone nel 1859 aveva scritto: “Non ho considerato
l’espansione del Piemonte come qualcosa di per sé desiderabile: oltre
un certo punto ne può scaturire una nuova serie di perico- li. Ma così
come oggi stanno le cose, questo sembra il modo migliore per allon-
tanare mali ben peggiori e più pressanti” (7). L’ambasciatore inglese a
Torino, Sir James Hudson, era un convinto sostenitore
dell’unificazione italiana, consi- derata nell’ottica dell’interesse
britannico. Voleva un’Italia forte e una grande flotta navale inglese
nel Mediterraneo. “L’Italia dev’essere italiana, altrimenti sarà di
nuovo austriaca o francese” (8) scriveva al suo governo. Il ministro
de- gli esteri britannico, John Russell, d’altra parte, considerava il
governo di Na- poli una tirannia. Secondo il rappresentante
diplomatico degli Stati Uniti a Na- poli, Chandler, egli ed i suoi
colleghi con le loro critiche stavano incoraggiando lo spirito
rivoluzionario ad agire contro il governo borbonico.
Un fattore decisivo era anche
l’attività svolta dalle logge massoniche, nate da una filiazione delle
logge inglesi, continuamente perseguitate nel meridione e quindi
interessate al crollo del cattolico regno dei Borboni. L’Inghilterra
voleva la fine del potere temporale del Papa. L’antipapismo
protestante era evidente nelle parole di Odo Russell, rappresentante
diplomatico britannico a Roma, quando scriveva allo zio John Russell:
“Non posso nascondere il mio profondo convincimento che prima sarà
abolito il potere temporale del papa e meglio sa- rà per l’Italia e per
l’umanità in generale” (9).
L’Inghilterra aveva inoltre forti
interessi nel regno borbonico. In Sicilia, in particolare, gli inglesi
possedevano miniere per l’estrazione dello zolfo sulle Madonie ed erano proprietari degli stabilimenti vinicoli di Woodhouse
e In- gham a Marsala. Oltre a ciò Londra capiva bene che l’imminente
apertura del canale di Suez avrebbe reso la Sicilia una zona di
grande interesse strategico per le potenze europee, vedeva quindi con
apprensione l’avvicinamento diplo- matico dell’impero russo ai Borboni
al fine di ottenere uno sbocco sul Mediter- raneo.
Per tutti questi motivi
l’Inghilterra era pronta ad appoggiare un eventuale tentativo di
conquista da parte del Piemonte.
Garibaldi era inizialmente restio
ad accettare la guida della spedizione che Medici, Bixio e Bertani,
d’accordo con Crispi stavano preparando. Pensava che i siciliani non
fossero pronti ad una sollevazione di popolo per un progetto di unità
nazionale, e fattore ancora più grave, che un fallimento avrebbe
com-promesso le sorti d’Italia. Più promettenti sembrarono essere gli
argomenti ad- dotti dai vertici inglesi. Fu più volte ricevuto
infatti dall’ambasciatore britan- nico a Torino, Sir James Hudson,
close friend of Cavour che, rassicurandolo sulle simpatie
dell’Inghilterra, gli garantiva ampia protezione per la riuscita della
missione in Sicilia (10). Questo fatto è noto agli storici della
spedizione. Quello che non è noto è che l’interesse inglese si spinse
ben oltre alcune astratte ester- nazioni di amicizia. Alcuni storici
vedono nella presenza di un agente segreto al servizio di sua Maestà
Britannica, tale Laurence Oliphant, che, sotto le spo- glie di un
giornalista inglese, accompagnò per un certo periodo Garibaldi in o-
gni suo movimento, il segno dell’appoggio dell’Inghilterra alla
spedizione in Si- cilia. Questo misterioso individuo viaggiava con lui
sul treno, alloggiava negli stessi alberghi e prendeva parte a tutti
gli incontri per poi scomparire alla vigilia della spedizione dei
Mille. In realtà Oliphant, forse in via del tutto privata, sta- va
incoraggiando Garibaldi a preparare la riconquista di Nizza e di
Savoia (11).
Ma i fatti presero una via diversa. Sul treno di
ritorno da Nizza a Genova Ga- ribaldi, come ricorda l’amico inglese,
spent almost the entire journey reading a huge bundleof
letters speditegli dai volontari per convincerlo ad intervenire in
Sicilia. Bisogna dire invece che al momento della realizzazione
dell’impresa siciliana la presenza inglese si rivelò determinante.
Possiamo cominciare da un atto
politico. Il conte di Cavour venne richiamato al potere dal re
Vittorio Emanuele il 21 gennaio 1860, dopo la breve parentesi del
governo La Marmora-Rattazzi, con l’avvallo dell’ambasciatore inglese a
To- rino Sir James Hudson, dimostrando come fosse stretto il legame
del conte con la leadership inglese.
Quando l’11 maggio 1860 la
spedizione dei Mille sbarcò a Marsala, nella Si- cilia occidentale,
sul molo sventolava l’Union Jack, la bandiera britannica posta a
protezione degli stabilimenti vinicoli inglesi. I segni della
presenza straniera erano così evidenti da far sembrare la cittadina,
posta sulla costa della Sicilia occidentale, una colonia britannica.
Nel porto di Marsala si trovavano
inoltre due navi della Marina da guerra inglese: l’Argus e l’Intrepid.
La loro presenza impedì alle fregate borboniche di aprire
immediatamente il fuoco, cosicché i garibaldini poterono sbarcare con
relativa facilità.
Allo stesso modo la complicità e
l’appoggio della flotta inglese favorirono anche il successivo sbarco
dei garibaldini a Reggio Calabria.
Le potenze direttamente coinvolte
che si adoprarono al successo della spe- dizione furono dunque due: il
Piemonte e l’Inghilterra, mentre la Francia, ben- ché in teoria fosse
contraria ad ogni ulteriore allargamento del Piemonte, di fat- to non
intervenne durante tutto il corso dell’operazione che si protrasse da
maggio a settembre.
La
spedizione contro il regno di Napoli richiese un’accurata
preparazione. L’iniziativa, dopo il fallimento della spedizione di Pisacane, era passata dal Partito d’Azione, di ispirazione mazziniana,
ai dirigenti della Società Naziona- le, legati all’ambiente moderato. La
Farina, segretario della Società Nazionale e successivamente Crispi,
legato a Mazzini, avevano organizzato rispettivamente dei Comitati
rivoluzionari in Sicilia. Ciò era stato possibile perché nell’isola
era forte l’odio verso Napoli e verso i Borboni. L’aristocrazia e la
nuova borghesia terriera avevano convogliato, infatti, il malcontento
dei poveri contro il gover- no borbonico, additato come unico
responsabile della miseria e dello sfrutta- mento, denunciando la
gravezza del fisco regio. Veniva invece taciuto che sulla popolazione
meridionale pesavano ugualmente le gabelle dei proprietari ter- rieri.
Il diffuso malcontento rendeva possibile la partecipazione popolare ai
mo- vimenti insurrezionali per mezzo dei quali si mirava, tuttavia, non
all’unità na- zionale, ma all’autonomia dell’isola. Crispi, che non era
riuscito a coordinare l’azione insurrezionale con La Farina, decise di
rivolgersi a Garibaldi allo scopo di fornire al Piemonte il pretesto
per intervenire. Da mazziniano e repubblicano Crispi era passato alla
convinzione che la liberazione del meridione non poteva realizzarsi
che sotto la guida del regno del Piemonte, arrivando a condividere con
Garibaldi, che aveva percorso un analogo processo, il motto “Italia e
Vit- torio Emanuele”.
Intanto
il 3 aprile 1860 Rosolino Pilo era partito clandestinamente per Paler- mo per accendervi la scintilla dell’insurrezione. Rosolino Pilo e
Giovanni Cor- rao dovevano trasportare armi e reclutare squadre di
insorti, ma l’obbiettivo non fu raggiunto perché la nave su cui
viaggiavano rischiò il naufragio ed inve- ce che a Palermo, come
programmato, li sbarcò a Messina. A Palermo intanto Giuseppe Riso e i
suoi uomini, che avevano dato il via all’insurrezione, veniva- no
sopraffatti dai gendarmi.
Di fronte ai preparativi in
corso Cavour, convinto ormai della fattibilità della conquista del
Meridione, ma preoccupato che il movimento lasciato completa- mente
nelle mani dei democratici prendesse una direzione incontrollata,
aveva pensato di passare all’azione. Per sbarrare la strada a
Garibaldi propose in un primo momento al generale Ribotti di andare in
Sicilia a dare man forte ai ribel-li con reparti regolari camuffati da
volontari. Ma successivamente ritornò sul proposito decidendo di agire
in altro modo. Il 5 aprile, proprio nei giorni in cui Rosolino Pilo
era in Sicilia, avvertì infatti l’emissario piemontese a Parigi Co- stantino Nigra che
“un movimento rivoluzionario è scoppiato a
Palermo e Mes-
sina” Aggiungeva: “Thachez de savoir si l’Angleterre y est
pour quelque chose”
(12) ed
il 6 aprile spiegava a D’Azeglio, ambasciatore a Londra, che doveva
“far comprendere al governo inglese che, a prescindere dalla nostra
intenzione di consacrare ogni nostro sforzo all’organizzazione interna
del nostro regno, non possiamo restare indifferenti a questi
avvenimenti” (13). Da queste lettere appare chiaro come Cavour
fosse da tempo pronto ad intervenire in Sicilia e come, sotto pressione di Vittorio Emanuele e
soprattutto degli eventi, non esi- tasse a interferire con la politica
di uno stato sovrano. Intanto fra il 9 ed il 17 a- prile Giuseppe Canofari, ambasciatore napoletano a Torino, scriveva diverse volte al
ministro degli esteri a Napoli, mettendolo a conoscenza che il
pericolo era imminente e che era anche di grande portata perché “molti
Siciliani emigra- ti si sono diretti alla Commissione istituita da
Garibaldi in Milano per avere u- na parte delle armi o del denaro
proveniente dalla nota sottoscrizione del “mi- lione dei
fucili” e
perché “il deputato Bertani e molti emigrati specialmente sici- liani
sollecitano Garibaldi per favorire con qualche tentativo la
rivoluzione in Sicilia o in altra parte de’ Reali Domini” (14). Come si vede il Regno di Napoli era stato messo sull’avviso da tempo
riguardo agli avvenimenti che stavano maturando.
Intanto il disegno di Cavour
prendeva una forma sempre più concreta. Il 18 aprile, il primo
ministro spiegava al Nigra di aver deciso di agire in quanto “le
inquietudini adesso in arrivo da Napoli e dalla Sicilia” ve lo
obbligavano “Mal- grado egli avesse desiderato di tutto cuore che in
questo momento la tranquilli- tà dell’Italia meridionale non fosse
turbata” e perciò era stato costretto a spedi- re “nei mari della
Sicilia il marchese D’Aste col Governolo, per una missione di pura
osservazione” (15).
Qui è necessario fare un’osservazione sulla riservatez- za dei dispacci
al Nigra. Essi infatti, per la loro natura ufficiale, potevano es- sere
letti in ogni momento dall’imperatore francese, che in tal modo
avrebbe conosciuto indirettamente che il governo sardo non agiva di
sua volontà, ma sotto la spinta di eventi esterni. E mentre, sempre il
18 aprile, Cavour scriveva al marchese D’Aste che lo scopo della sua
missione era quello di “giudicare con perfetta conoscenza di causa
delle forze che si trovano nell’isola così dalla parte degli insorti
come da quelle truppe Reali”, spediva in Sicilia ben due navi da
guerra, l’Authion a Messina ed il Governolo a Palermo (16).
La Farina, attivissimo segretario
della Società nazionale, incaricato di mante- nere i rapporti fra
Garibaldi e Cavour, il 24 aprile scrisse al conte che il genera- le
aveva voluto incontrarlo per “un lungo abboccamento. [Esso era]
indeciso sul da farsi ma desideroso d’agire d’accordo” (17).
Aggiunse di aver inviato al- cuni amici in Sicilia per preparare il
terreno. Si tratta naturalmente della spedi- zione di Pilo, del cui
insuccesso forse non era ancora giunta notizia. A fine a- prile dunque
Garibaldi appariva ancora indeciso sulla sua partecipazione al- l’impresa, mostrando di non credere nella rivoluzione siciliana. Il
fallimento della spedizione di Pilo la quale, secondo le previsioni
degli organizzatori, a- vrebbe dovuto ottenere l’appoggio in massa della
popolazione, dovette sicura- mente scoraggiare Garibaldi. Tuttavia a
quel punto non si tirò indietro. Nella lettera a Bertani del 5 maggio
scrisse: “Io non consiglierei il moto della Sicilia, ma venuti alle
mani quei nostri fratelli ho creduto obbligo di aiutarli” (18). Gli
organizzatori della spedizione dei Mille, che avevano dato per
scontato la solle- vazione popolare, erano anche in strettissimo
contatto con la corte torinese e sapevano di poter contare sul
supporto del governo sardo e su quello della ma- rina inglese. Quindi
il programma non subì interruzioni. Anzi. A Genova ferve- vano i
preparativi per la spedizione militare ormai imminente senza che ci
fosse alcun tentativo di ostacolare il proposito da parte delle
autorità. I volontari af- fluivano da tutte le parti senza che la
polizia facesse nulla per impedirlo. Si riunivano uomini, si
radunavano armi, si raccoglieva denaro, tutto alla luce del sole.
È difficile tracciare il
percorso del denaro arrivato ai democratici per sovven- zionare la
spedizione. Possiamo tuttavia affermare che fu tanto. Già dalla fine
del 1859 i circoli garibaldini stavano raccogliendo fondi con lo
slogan un milio- ne di fucili con il sostanziale assenso del
governo La Marmora-Rattazzi. Garibal- di personalmente ricevette dai
massoni inglesi tre milioni di franchi francesi, poi convertiti in
piastre turche. Le piastre turche dovevano servire per conver- tire i
generali borbonici alla causa dei Mille. Alcuni esponenti dell’area
demo- cratica e non pochi tra i promotori dell’impresa dei Mille erano
massoni, a co- minciare dal Fauché, che mise di fatto a disposizione dei
volontari le due navi della compagnia Rubattino. Dai massoni dunque
arrivarono “quei sussidi di de- naro senza i quali l’esercito
garibaldino rischiava di sfuggir di mano al Genera- le” (19). E’ certo che alla raccolta dei
fondi contribuirono anche i moderati e la corte, almeno fino al
momento in cui il governo piemontese e la classe di- rigente si resero
conto che l’invasione dell’Italia meridionale era ultimata. A quel
punto smisero di mandare soldi, perché sarebbero serviti al mantenimen-
to della Dittatura instaurata da Garibaldi. Lo stesso
Vittorio Emanuele aveva consegnato a Bertani, che insieme a La Farina
si stava occupando di organiz- zare la spedizione, tre milioni di lire.
Il patriota milanese Giovanni
Visconti Venosta ricorda nel suo libro di me- morie che i garibaldini avevano ricevuto dal banchiere
milanese Costantino Garavaglia una
grossa somma di denaro in monete d’oro, pari a circa 300.000 lire.
Ecco come avvenne il trasferimento della somma nelle loro casse. Un
sa- bato sera Garavaglia si reca al Club dell’Unione. Vi trova un
biglietto di D’A- zeglio, allora governatore di Milano, che lo invita
urgentemente a recarsi da lui. Introdotto alla sua presenza D’Azeglio
gli dice: “Mi occorrono per domani mat- tina 250 o 300 mila lire e le
voglio in oro in tanti pezzi da venti franchi”. Alla osservazione che
il giorno dopo era domenica e che le banche erano chiuse, D’Azeglio
risponde: “Mantenetemi il segreto, ma sappiate che è il Conte di Ca- vour che mi ordina di consegnare domattina al capitano Chiassi la
somma in- dicata”. Garavaglia, vincolato dal segreto, fu costretto a
rivolgersi “a quei po- chi amici” che non gli avrebbero chiesto troppe
spiegazioni. Alle dieci della domenica mattina i soldi erano raccolti.
Alle 11 il capitano Chiassi portò via i sacchetti. “Il giorno dopo D’Azeglio mi mandò in rimborso tante sue
accetta- zioni di £ 50000
cadauna pagabili presso il gabinetto del ministro Cavour. Due o tre
giorni dopo si seppe della partenza di Garibaldi da Quarto” (20).
Intanto l’ammiraglio della marina
piemontese, Pellion di Persano con “una non lieve somma di denaro”, si
parla di un milione di ducati fattigli pervenire dal Cavour attraverso
la Casa de la Rue di Genova, preparava il terreno a Na- poli,
corrompendo burocrati e alti ufficiali borbonici. Tutto ciò avveniva
in gran segreto in quanto lo stesso Persano incontrava i suoi agenti
di contatto nottetempo in caffè, osterie e palazzi nobiliari.
Secondo il resoconto tradizionale
la spedizione avrebbe avuto la seguente modalità. All’insaputa del
governo sardo, da Quarto presso Genova, nella notte fra il 5 ed il 6
maggio, un gruppo di eroici volontari, circa mille, alla guida di Nino
Bixio, si impadronì con un colpo di mano dei vapori Piemonte e Lombar- do, appartenenti alla compagnia di navigazione Rubattino,
imbarcandosi per la Sicilia. Giunti a Marsala ripercorsero l’isola,
battendo in un primo scontro un contingente borbonico a Calatafimi. A
Salemi Garibaldi assunse la dittatura nel nome di Vittorio Emanuele,
fece appello all’insurrezione contadina ed entrò vittorioso a Palermo.
I fatti furono ben diversi e
forse conviene analizzarli dettagliatamente.
I piroscafi erano stati
consegnati ai volontari da un dipendente della società armatrice, tale
Giambattista Fauché. Egli aveva trattato personalmente con Bixio e
con Bertani (21).
I piroscafi Lombardo e Piemonte appartenevano alla compagnia navale di
Raffaele Rubattino, il quale era indubbiamente consen- ziente, sia
perché da tempo in rapporti economici col governo sardo, sia per
essere favorevole all’iniziativa insurrezionale. Inoltre è verosimile
che se si era fatto rubare le navi, oltre a essere stato spinto dallo
spirito patriottico e dal- l’amicizia col Piemonte, doveva essere stato
tranquillizzato dalla garanzia del risarcimento degli eventuali danni
derivati da una spedizione tanto rischiosa.
Una quarantina di volontari
s’impadronì delle due navi la sera del 5 maggio 1860, e dopo avervi
caricato gli altri uomini e le armi ed aver prelevato Gari- baldi a
Quarto, prese il largo. La maggior parte dei volontari era formata da
borghesi, solo una piccola parte era costituita da lavoratori, alcuni
dei quali ar- tigiani. Fra di loro c’erano nomi illustri. C’era Giorgio
Manin, figlio di Daniele e Menotti Garibaldi, figlio del Generale.
C’era il giornalista francese Maxim Du Camp, c’era Crispi con la
moglie Rosalia Montmasson.
Lo sbarco delle camicie rosse a
Marsala, avvenuto l’11 maggio, non solo fu protetto dalle navi
inglesi, ma non fu neppure impedito dalle navi della Marina
napoletana. Dall’esame dei documenti ufficiali, un deputato inglese, O’Clery,
poteva dedurre che le navi inglesi erano state mandate a Marsala per
proteggere lo sbarco di Garibaldi. “Queste due navi erano arrivate il
giorno prima, annun- ciando ufficialmente che venivano per proteggere
gl’interessi britannici. Sareb- be molto più naturale di domandare
perché non erano accorse nell’aprile, quan- do ardeva l’insurrezione nel
distretto di Marsala, invece del maggio quando es- sa vi era interamente
cessata”. O’Clery aggiunge: “In quel tempo era general- mente creduto in
Italia, e ancora oggi si crede, che le navi inglesi fossero state
mandate a Marsala per facilitare lo sbarco di Garibaldi” (22).
La presenza alla fonda delle due
navi britanniche l’avvio Argus e la fregata Intrepid non evitò il
cannoneggiamento da parte delle fregate napoletane, ma, come affermò Jessie White Mario nel suo libro sulla vita di Garibaldi, sembrava che
i comandanti delle fregate Caracciolo e Acton non avessero intenzione di
danneggiare i volontari, in quanto “fulminarono, è vero, suolo e
spiaggia, ma furono colpi innocenti”. Quando la fregata Partenope “da
una batteria di gros- so calibro esplose un turbine di
mitraglia [risultò] innocente anche questa” (23).
Solo a sbarco ultimato l’esercito napoletano catturò il Piemonte e
incendiò il Lombardo. Di fronte all’inefficienza della Marina
borbonica verrebbe da sup- porre che i suoi ufficiali fossero ormai
guadagnati alla causa dell’unificazione col Piemonte, o forse erano
stati semplicemente corrotti ad opera di emissari piemontesi. Riguardo
all’ipotesi unionista c’è un dispaccio di Cavour al Persa- no,
l’ammiraglio che da tempo agiva a Napoli, che fa capire che c’erano
stati dei rapporti fra gli ufficiali della Marina napoletana ed il
marchese d’Aste, co- mandante della nave da guerra Governalo, spedita
durante l’insurrezione d’a- prile: “Alcuni ufficiali della Marina
napoletana avendo manifestato sentimenti italiani al marchese d’Aste,
ho mandato a quest’ufficiale col telegrafo, l’ordine di coltivare
questi sentimenti e di continuare le trattative apertisi, facendogli
facoltà di assicurare a coloro che promuovessero un pronunciamento
della Squadra gradi e promozioni vantaggiose” (24).
In effetti Guglielmo Acton, ca- pitano di vascello, comandante della
fregata Partenope, al termine della guerra fece una rapida carriera
nella Marina italiana e nel Regno sabaudo (25). L’ap- prodo dei
Mille avvenne senza grossi incidenti. Sul molo l’unico che dette il
benvenuto ai volontari fu il console inglese. La popolazione del luogo
invece si era chiusa in casa.
Non c’è dubbio che il successo
della spedizione fu in parte favorito dal- l’inefficienza o dalla
connivenza e dalla corruzione dei ministri che circondava- no Francesco II e degli alti gradi militari, che come abbiamo visto erano stati
avvertiti per tempo della sua preparazione, ma che non avevano preso
prov- vedimenti idonei a sconfiggere un manipolo formato da un migliaio
di uomini. Il controspionaggio austriaco aveva informato Napoli con
largo anticipo. Già il 16 febbraio, quindi circa tre mesi prima dello
sbarco, il cavalier Martini, mini- stro plenipotenziario dell’imperatore
d’Austria a Napoli, riceveva un dispaccio telegrafico che annunciava
che: “Una spedizione partirà prossimamente da Ge- nova e da Livorno per
Napoli” (26).
Il 14 maggio, tre giorni soltanto
dopo lo sbarco, Garibaldi poté giungere a Sa- lemi, “ove l’accoglienza
fu cordialissima” dove assunse la Dittatura delle Due Sicilie in nome
di Vittorio Emanuele II (27).
Da Salemi in poi la spedizione fu
coronata da continui successi e la marcia delle camicie rosse, come si
legge nella storiografia ufficiale, cominciò ad esse- re sostenuta dalla
popolazione locale. I reparti garibaldini furono rinforzati ef- fettivamente da squadre di picciotti, ma esse furono messe a
disposizione dai locali latifondisti. Li comandava il barone Sant’Anna.
Non si può parlare quin- di di aiuto spontaneo da parte dei contadini,
ma di loro reclutamento in funzio- ne antiborbonica. In seguito
insorsero le campagne dell’interno, questa volta in maniera spontanea
e disordinata, linciando i soldati borbonici e assalendo i
proprietari, ma la loro rivolta non aveva scopi patriottici, essendo
le sue com- ponenti principali l’aspirazione all’autonomia e la fame di
terra. L’episodio più noto di queste rivolte è quello che riguardò la
cittadina di Bronte, vicino al- l’Etna. L’ordine fu ristabilito dai
garibaldini con drastiche misure di repressio- ne.
Il 15 maggio ci fu un vero
scontro fra garibaldini ed esercito napoletano. Es- so avvenne a Calatafimi dove fu sconfitta un’agguerrita colonna borbonica,
co- mandata dal generale Landi. L’esercito regolare fu preso di sorpresa
perché il governo di Napoli non aveva segnalato lo sbarco al Landi,
benché ne fosse al corrente da tempo attraverso il controspionaggio
internazionale. Lo scontro, che fu diretto magistralmente da
Garibaldi, che seppe utilizzare al meglio le po- che forze, si concluse
con un corpo a corpo. Esso causò la morte di circa trenta uomini sia
da una parte che dall’altra. Tra il 26 ed il 30 maggio fu conquistata
Palermo, grazie anche all’aiuto di una parte della popolazione della
città.
Nel mese di giugno le armate
garibaldine penetrarono nell’isola, conquistan- do tutte le città
dell’interno. Nell’ultimo caposaldo borbonico in Sicilia, Milaz- zo, fu
combattuta la battaglia più sanguinosa. Rimasero sul terreno circa
mille uomini. Sebbene avessero subito le perdite maggiori furono
ancora una volta i garibaldini a sopraffare l’esercito napoletano.
Messina restò sotto il controllo borbonico fino alla capitolazione del
Regno, che avvenne nel mese di settem- bre del 1860.
Nella notte dell’8 agosto un
contingente di 200 garibaldini sbarcò sulla costa della Calabria,
eludendo il controllo delle navi borboniche. Due giorni dopo anche
Garibaldi con il resto dei volontari, che intanto era cresciuto di
numero, partì da Taormina ed approdò in Calabria senza incontrare
resistenza. Ancora una volta il sospetto di connivenza con i
garibaldini da parte delle forze militari napoletane, che dovevano
presidiare i porti, è realisticamente fondato. Nel me- se di agosto i
“mille” conquistarono la Calabria, in parte anche grazie ai moti
insurrezionali di alcune città che si misero agli ordini della
Dittatura.
Da quel momento in poi la marcia
su Napoli, dove si trovava Francesco II, non avrebbe costituito più
alcun problema di natura militare.
Cavour ancora una volta tentò di
gestire l’impresa, cercando di far insorgere la capitale prima
dell’arrivo di Garibaldi, ma il tentativo non riuscì, in parte an- che
per la mancanza di energia del popolo napoletano, come affermò lo
stesso Cavour. Allora decise di far invadere le Marche e l’Umbria
dall’esercito pie- montese, in modo che l’operazione da repubblicana e
radicale si trasformasse in moderata e monarchica. Lo scopo era quello
di dare alla monarchia la guida del movimento nazionale sottraendolo
al partito radicale che governava in quel momento la Sicilia.
Il 6 settembre Francesco II,
ormai abbandonato da tutti, compresi ministri e capi militari,
s’imbarcò con la moglie sulla nave da guerra spagnola Colon la- sciando
Napoli in direzione di Gaeta. Il ministro della Guerra, generale Pianell, che aveva consigliato di contrastare i garibaldini dando loro
battaglia, aveva dato le dimissioni ed era partito per la Francia, da
dove tornò dopo alcuni mesi, per riprendere il suo grado nell’esercito
piemontese. Il regno borbonico si pote- va considerare ormai concluso.
Intanto l’ex ministro degli Interni Liborio Ro- mano e i ministri della
capitale si misero in contatto con Garibaldi, riconoscen- dolo come
l’autorità di riferimento. Sia a Palermo che a Napoli si discuteva su
quale destino dare alle terre liberate. Se esse dovevano cioè
governarsi autono- mamente o essere annesse al Piemonte. Il Prodittatore
per la Sicilia Mordini emanò un decreto per l’elezione di un’assemblea
che doveva discutere quale forma doveva avere il governo del Sud. A
Napoli i dirigenti della sinistra demo- cratica sollecitavano Garibaldi
ad adottare una misura analoga. Bertani si op- poneva all’annessione al
Piemonte, proponendo una forma repubblicana, soste- nuto dai più
autorevoli esponenti del Partito d’Azione: Ferrari, Cattaneo, Nico-
tera, e
dallo stesso Mazzini, che nel mese di settembre era presente a Napoli.
Prevalse la tesi della votazione per plebiscito, Crispi si dimise e il
Generale de- cise che si tenesse il plebiscito. Sulla base del risultato
delle votazioni, il Regno meridionale entrò a far parte del nascente
Regno italiano. Le “due Italie” si uni- rono il 26 ottobre 1860 con lo
storico incontro di Teano, ma dietro l’ufficialità dell’evento,
immortalato da centinaia di oleografie, e avvenuto in realtà non a
Teano ma a Taverna di Catena, esistevano lotte di schieramento molto
aspre.
Il successo della spedizione
alimentò la nascita del mito. Alla prova dei fatti il considerevole
contingente borbonico comprendente circa 100.000 soldati, di cui
25.000 dislocati in Sicilia, non era stato in grado di fermare un
manipolo di mille uomini armati e addestrati sommariamente. La
tattica militare del Gene- rale, che disorientò le idee degli anziani
generali borbonici, il coraggio delle ca- micie rosse, la
partecipazione della popolazione del Regno borbonico, determi- narono
in gran parte il successo della spedizione, ma si deve anche
considerare la inspiegabile inefficienza dell’esercito borbonico, che
trasformò l’impresa, se- condo la tesi di un garibaldino, in una sorta
di passeggiata militare, stancante è vero, ma senza
rischio alcuno e l’attraversamento dello stretto “il terribile pas-
saggio tanto temuto per il nostro esercito[…] nient’altro che
una breve gita per mare” (28).
Massimo D’Azeglio, che come si è
detto era governatore di Milano, dovette riconoscere che “nessuno più
di me stima ed apprezza il carattere e certe qua- lità di Garibaldi; ma
quando s’è vinta un’armata di 60.000 uomini, si dovrebbe pensare che
c’è sotto qualcosa di non ordinario, che non si trova dappertutto, e
non credersi per questo d’esser padrone del globo” (29).
Alla prova dei fatti le insurrezioni di popolo
erano fallite tutte, dimostrando che la sola forza degli ideali non
era sufficiente a minare l’esistenza degli stati. Il concorrere di più
fattori, come l’appoggio navale dell’Inghilterra, l’aiuto eco- nomico
della massoneria internazionale, l’approvazione del re e del governo
piemontese, ed il loro sostegno mediante ingenti somme di denaro,
determina- rono indubbiamente, insieme con il coraggio dei garibaldini,
il successo dell’im- presa.
Proprio l’enorme quantità dei fondi arrivati ai
garibaldini da varie fonti, sia legali che occulte, tanto importante
ai fini del successo della spedizione, apre un interessante quesito,
sul come questo cumulo di denaro fosse stato speso. Consideriamo che
una parte fosse destinata alle necessità militari, e che una parte
fosse servita per alcuni lavori pubblici urgenti e per opere di
ricostruzio- ne. Furono presi infatti provvedimenti per la tutela
dell’ordine interno, per la normalizzazione delle università,
per il ripristino dei tribunali delle poste, degli acquedotti e delle
strade. Questi provvedimenti tuttavia ebbero fine con l’arri- vo dei
piemontesi a Napoli e a Palermo, i quali normalizzarono
l’amministra-zione e misero termine alle misure d’emergenza. Una parte
fu spesa per finan- ziare circoli e testate di giornali allo scopo di
raccogliere sostenitori ed influen- zare l’opinione pubblica.
Al denaro raccolto prima della spedizione si deve
aggiungere la massa mone- taria delle Due Sicilie. Una parte di questo
denaro, che era custodito nelle cas- se del Banco di Napoli, era stato
prelevato dalle autorità di governo garibaldi- no. Una quota
corrispondente si trovava inoltre nei depositi bancari siciliani. Il
colonnello Kupa, un esule ungherese, disse che quei soldi furono spesi
tutti per l’amministrazione dello stato “cosicché tutte le casse
restarono vuote”. Ma il governo della Dittatura continuava ad avere
un estremo bisogno di denaro. Il 18 ottobre, sempre il colonnello Kupa
scriveva: “occorrendo denari ed essen- dosi detto che in cassa delle
finanze non se ne trovava, Garibaldi ordinò che si intimasse ai
banchieri di somministrare sotto minaccia di fucilazione se ricusas- sero; a questo modo venne uno dei primi banchieri di Napoli e
sborsò uno o due milioni” (30). Dove finì dunque tutto quel fiume di denaro,
quello raccolto prima della spedizione e quello prelevato dai depositi
bancari appartenenti al regno borbonico, e quello rastrellato durante
le operazioni di guerra? In tutte le azioni, anche in quelle rivolte
alle migliori finalità, ci sono sempre singoli o gruppi di potere che
traggono da esse vantaggi personali. La spedizione dei Mil- le non fece
eccezione.
Il denaro infatti andò in parte ad arricchire
singoli individui coinvolti nella spedizione, in parte fu inghiottito
dall’esercito dei volontari. Tra le piaghe più diffuse fra i volontari
vi era la vendita di armi e di abbigliamento in dotazione. Ci fu
inoltre l’inflazione dei gradi militari che portò l’esercito
garibaldino ad un rapporto fra ufficiali e soldati semplici da uno a
quattro, invece che da uno a venti come è la regola. Ciò ovviamente
comportava un maggior onere per il lo- ro mantenimento. A volte capitava
che poiché nessun corpo teneva conto dello stato effettivo del numero
e dei nomi dei soldati che gli appartenevano, questi passassero
dall’uno all’altro corpo, così che potevano riscuotere la paga più
volte (31).
L’amministrazione dei fondi era tenuta dal
romanziere e colonnello garibaldi- no Ippolito Nievo. Ma i registri
contabili riguardanti la spedizione non sono più rintracciabili dato
che colui che ne era responsabile morì in circostanze miste- riose.
Già dalla partenza da Quarto, nel maggio 1860,
Giacomo Acerbi, che ebbe l’incarico di curare l’amministrazione dei
fondi, aveva scelto come collabora- tore Nievo. Fu Nievo quindi a
tenerne la rendicontazione per tutta la durata della Dittatura. Quando
la stampa vicina a Cavour cominciò ad accusare i de- mocratici di usare
i fondi pubblici per causa di partito e a chiedere di dimostra- re come
erano stati impiegati, Nievo si mise in viaggio per Torino, per
rendere spiegazione delle spese. Nievo ed Acerbi erano entrati più volte in
conflitto con i ministri della guerra per quanto riguardava la
gestione dei fondi. Scriveva Acerbi: ”Dalla necessità adunque di fare
e dall’impossibilità di fare regolarmen- te, nacquero dubbi ed equivoci
infiniti, ai quali si cercò di riparare in parte col- la buona volontà,
in parte col rimettere le paghe in acconti, in parte col do- mandare
spiegazioni all’autorità competenti” (32). Nievo, Giacomo Acerbi, Giuseppe Gruccione e Nicolò Agata, non sempre
appoggiati dal vertice garibal- dino, fecero immani sforzi per difendere
la regolarità della loro erogazione, contro i famelici ufficiali
dell’armata di stanza in Sicilia. Per scagionare quindi se stesso e
l’Intendenza meridionale davanti al governo piemontese il 4 marzo 1861
egli s’imbarcò sull’Ercole. Ma la mattina del 5 marzo, nelle acque fra
Ischia e Capri, l’Ercole affondò col suo carico di passeggeri e con
tutti i registri della Dittatura. L’Ercole era un vapore di 130
tonnellate con lo scafo in legno, costruito in Inghilterra nel 1832 ed
acquistato da armatori napoletani nel 1840. Fra i vari proprietari a
cui era appartenuto, c’era stato anche l’armatore genove- se Rubattino.
Nel suo ultimo viaggio trasportava 80 persone, nessuna delle quali si
salvò. Non fu trovato alcun relitto della nave, come se fosse
scomparsa nel nulla. Si trattò di sabotaggio? E’ molto probabile.
Infatti con la scomparsa dei documenti nessuno seppe più da dove
venivano i fondi, quanti erano e co- me vennero spesi. Per esempio
nessuno aveva saputo del fiume di denaro af- fluito dall’Inghilterra per
mezzo dell’attivismo delle logge massoniche a cui Ni- no Bixio,
Francesco Crispi e lo stesso Garibaldi erano affiliati.
luglio 2004
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Note
5. Cavour e l’Inghilterra. Carteggio con V.E. D’azeglio
a cura della Commissione Reale Editrice, Volume primo, Il
Congresso di Parigi, Bologna, 1933, p.357.
6. Rosselli ritiene tuttavia che questo sia un argomento da
approfondire me- diante ulteriori ricerche nelle carte di Cavour. Rosselli N., Carlo Pisacane nel
Ri- sorgimento italiano,
Torino, 1932, nota p.260.
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