Politica come servizio e cultura come ispirazione

di Piero Bigongiari

 

 

Il proprio dei politici è quello di far parlare gli uomini di cultura, per poi non ascoltarli. Basta che la loro voce sussurri, se poi si diffonde nel deserto, come accade ai profeti inascoltati, non ha importanza.

Io una volta dissi che la politica è, o dovrebbe essere, figlia della cultura, e questa figlia della poesia (intendo poesia in tutti i suoi aspetti in- ventivi, produttivi di idee che non si sono ancora sclerotizzate in ideologie). Mentre sembra che applicare un progetto politico non significhi altro che obbe- dire a un piano già ideologizzato. Per questo, capisco come il dialogo tra la cul- tura che «pensa» il progetto e la politica che lo realizza, un dialogo ch’io reputo assolutamente basilare se foriero di ascolto e di esiti, sia invece esorcizzato dai politici per renderlo, come vox clamantis in deserto nel migliore dei casi, neutra- lizzato rispetto al fare quello che si deve o si dovrebbe fare: che è un compito in fase esecutiva che dovrebbe appartenere in toto agli specialisti della res pu- blica. Ora io dico che il politico è, sì, (quando lo è), un tecnico che manovra gli strumenti specifici, sociali ed economici, all’uopo necessari per realizzare un progetto politico, ma la sua opera va intesa come servizio al fine di realizzare, col buon governo, il bene pubblico. Come tale la techne, mentre il politico ha a disposizione gli strumenti operativi del potere, raramente ha la capacità, vorrei dire etico-creativa, di dare un contenuto a tale sua operatività formale. Occorre il suggerimento illuminante e critico della cultura, non certo intesa come orga- nica al potere, ma anzi in qualche modo sua antagonista, a far sì che una opera- tività politica non si limiti a manovrare quella che è una situazione storica nei suoi elementi e nei suoi aspetti dispersi, quelli dell’occorrenza quotidiana, con provvedimenti che non vadano al di là del proprio naso, nel migliore dei casi nella forma di un’inerzia inventiva quando un tale operare non risulti in parten- za negativo.

Oggi in Italia si parla di progressisti e di conservatori, cioè di una sinistra, di una destra e di un centro, in un modo che è ancora ideologizzato, fino a diven- tare in sé una metafora geometrica poco programmatica e poco pragmatica, quando invece una situazione che è fluida e confusa potrebbe essere o apparire tale proprio perché interpretata secondo una logica partitica, e intendo dei con- contenuti ideologici dei vecchi partiti, o di quel che ne resta in un conformismo trasformistico, che hanno dato una prova tanto clamorosamente inefficiente quanto più ancorata al prestigio e agli interessi di una parte, invece che indiriz- zata alla realizzazione super partes, di un bene comune, quale dovrebbe essere l’efficienza e la libertà dell'organismo sociale, che appartiene a tutti e non ad alcuni. Il politico dovrebbe, una volta insediato al potere, privilegiare del suo potere il lato esecutivo rispetto al legislativo, in cui non dovrebbe essere che l’interprete di ciò che la società in continua evoluzione gli offre come materia della sua azione di interprete dei bisogni e di una giustizia sociale.

Mi si chiede che cosa suggerire ai nostri politici anche nel campo del governo della nostra città. Ebbene, a questo punto io vorrei fare riferimento a quanto, sollecitato in proposito, ho scritto reiteratamente e consigliato a varie riprese in questi anni, in articoli sulla «Nazione», in interviste, in scambi orali di opinioni, sempre disattesi. La sensazione purtroppo è che tutto questo interesse civico espresso da parte mia secondo le mie riflessioni in buona fede vòlte al buon go- verno della città, sia passato senza lasciare traccia in chi ci governa. Firenze è, come ognuno può vedere, una città socialmente ed esteticamente degradata, come se chi ha in mano la leva del comando non sappia interpretarne i bisogni, stimolarne i veri e peculiari motori per cui Firenze è quella città unica che è, motore di un’intelligenza sopranazionale. Buona fede, nel migliore dei casi, e cattivo gusto, almeno finora, sono andati a braccetto. Mancano gli impulsi i-deali in mezzo a un provincialismo dilagante, anche se qualcosa di positivo è da mettere nel conto di chi attualmente ci governa: in primis il piano regolato- re, l’impulso mirato a Nord-ovest di un ordinato (speriamo) sviluppo urbano, l’aeroporto...

E che altro? L’economia, ma in tal caso la colpa non è locale, boccheggia. La storia delle bancarelle è addirittura risibile.

La speranza è che il progetto di sviluppo metropolitano sia supportato corag- giosamente dalla presenza operativa dei maggiori architetti, italiani e non, che dimostrino che Firenze non ha paura del nuovo, e che l’antico in Firenze non ne sia l’aspetto meduseo che la impietra. E, tanto per cominciare, si tolgano le orribili catene e transenne e cordoli che sfigurano il volto di Firenze, restituen- dole il suo volto più autentico, che è un volto severo ma accogliente. A parte le famigerate pietre di Piazza della Signoria, chi non vede che la via Calzaioli sen- za i marciapiedi, che fanno parte organica della base degli edifici prospicienti, sicché questi paiono piantati lì come asparagi, non è più una via ma il letto di pietra di un fiume o un suk mediorientale. E che si aspetta a ripulire e a dragare il letto dell’Arno a monte del Ponte alle Grazie dalle isole di rena accumulate, pel gioco delle correnti, dalle alluvioni. Forse la prossima tragedia? Ma anche cosa si aspetta a progettare il polo umanistico dell’Università, in stretto accor- do tra le autorità accademiche, il Comune e il Ministero della Difesa?

Mentre si sta risolvendo il polo scientifico, l’inerzia domina per quanto riguar- da il futuro delle Facoltà umanistiche, i cui istituti sono dispersi qua e là in mo- do disorganico. Io, in proposito, avevo suggerito - e mi rendo conto che l’idea è audace ma di possibile realizzazione in tempi lunghi - di progettare il grande campus umanistico nel quartiere di Santa Croce, dove le caserme di via Tripoli e del Lungarno prospiciente potrebbero cedere il posto a questa nuova destina- zione, con un intervento architettonico che potrebbe cedere il posto a questa nuova destinazione, con un intervento architettonico che potrebbe cambiare il volto e l’utilizzazione in modo organico di questi spazi, finora informi e mala- mente caratterizzati come una periferia che nel frattempo si è spostata ben ol- tre. (Ricordate Michelucci e i suoi «centri motori»?) Ripeto: il quartiere di Santa Croce potrebbe divenire il nostro Quartiere Latino.

 Anche il traffico, così com’è regolato, con la sciocca vanteria che Firenze ha la più estesa Ztl di Europa (bel record!), è organizzato in un modo totalmente punitivo, che si vorrebbe rendere ancora più punitivo per i suoi abitanti, che non sono tutti dei maratoneti, e per gli organismi economici ivi residenti. En- trare nel centro storico, senza possibili vie di scorrimento che ne favoriscano intelligentemente la penetrazione accanto alle necessarie zone pedonali, e coi servizi pubblici così disorganizzati, è ormai diventato un fatto proibitivo. Nella desertificazione crescente del centro storico tra poco occorreranno i cammelli per attraversarlo. Io personalmente penso ormai a Firenze come alla città proi- bita di Lhasa nel Tibet; senza quel silenzio e quella vocazione alla meditazione interiore che la città sacra tibetana favorisce ai suoi monaci.

 

Animo, cari amici e miei amati concittadini, diamoci una regolata: meno di- spendio di fosforo partitico e personalistico e più cultura come madre della prassi. Sarà meglio per tutti. Se la speranza è nell’opera, come ha detto Carda- relli, cerchiamo di operare mettendo a frutto il guizzo dell’intelligenza che Fi- renze possiede ma anche nasconde o disperde nel basso profilo delle sue beghe provinciali.

 

 

 

 

ottobre 1993