L’Annunciata di Antonello da Messina

La malia del volto, il segreto della mano

Donna o Madonna? Ritratto, autoritratto o architettura?

  Il movimento impercettibile

 

di Enzo D’Angelo

 

 

 

 

Vergine Annunciata, Galleria regionale della Sicilia, Palermo

 

 

Quando verso la fine dei suoi anni ritorna al tema dell’Annunciata, Antonello guarda indietro con esistenziale se non filosofica meditazione. Non si è mai af- francato dalla malia delle fattezze umane, dei volti che lo hanno incantato per lunghe ore prima di cedere il loro muto segreto a quei ritratti dove popolani, mercanti, nobili e santi, usano lo stesso linguaggio senza tempo. Un tempo coa- gulato su tavola ma non più barriera già nelle contemplazioni giovanili dell’u- manista che nel presente rende vita al passato e nella pittura cerca l’esattezza della scienza e l’emozione dell’arte. Nell’ampia scala delle sintesi antonelliane l’immagine naturalistica è solo uno dei dati dell’attività teoretica o di una prati- ca strumentale. Il ritrarre naturalmente non è più occasione d’imitatio  medievale ma applicazione dell’imaginatio rinascimentale che deve, come prescrive il Cen- nini agli albori del Quattrocento, «trovare cose non vedute» rendendole «sotto ombra di naturale».(1)

Viaggiatore in un secolo di artisti viaggianti, Antonello arriva anche dove le gambe non lo portano. Il più fiammingo dei pittori italiani ha conosciuto quasi certamente le opere di Jan van Eyck e di Petrus Christus in Italia, senza spin- gersi così lontano come Vasari prova a dedurre. Del resto l’artista messinese ha sempre assimilato facilmente le scuole pittoriche con le quali è venuto a con- tatto, oltre alla fiamminga, la borgognona e la catalana, durante l’apprendistato napoletano e, in seguito, la toscana e la veneta. Ed ogni volta ha reso proprie versioni da caposcuola, lasciando tracce evidenti nella pittura di vari luoghi in cui soggiorna.

All’epoca dell’Annunciata di Palermo, verso il 1476 e forse anche dopo, Anto- nello è il celebre autore di quelle sintesi psicologiche e spaziali assolute, che impongono un radicale rinnovamento alla ritrattistica italiana ancorata ai profili celebrativi. In questa occasione il processo di sintesi avviato da Antonello e- sclude persino la modella e le sembianze di questa Annunciata riemergono da quelle dell’Annunciata di Monaco, databile intorno al 1473, dimostrando non solo che le «belle Madonne» gotiche ora sono Madonne belle ma pure, in certi casi, poco Madonne.

C’è tuttavia un primo livello di lettura che consente di riconoscere una Annun- ciata ricorrendo al confronto con altre opere, prima fra tutte quella citata di Mo- naco dello stesso Antonello, identificando come tipici di questo soggetto l’az- zurro del manto e la presenza del Libro d’ore. Ed è quanto, senza molto indulge- re, soddisfa le richieste del probabile committente. C’è poi un secondo approc- cio che non può ignorare l’umanizzazione del soggetto a partire dalla espressio- ne d’insieme, in cui gli occhi e le mani seguono traiettorie terrene e l’atteggia- mento meditativo non sembra più quello ispirato da un altro mondo, fino all'as- senza dell’aureola. Va anzi detto che la presenza di un’aureola, aggiunta poste- riormente e rimossa nel restauro del 1942 dopo l’accertamento radiografico, non impedì il protrarsi, ancora nei primi decenni del Novecento, di una tradi- zione orale che nel dipinto riconosceva la Beata Eustochia dei Calafati.

Dopo questa premessa possiamo desumere che se l’umanizzazione rende più donna la Madonna, la genesi di questo specifico tipo umano, la sua astrazione formale ed espressiva, il rapporto storico con le altre opere dell’autore, rendono meno ritratto quest’opera che certamente nasce da un tema fissato dalla tradi- zione e dalla committenza ma che poi riesce a comprendere una riflessione che il pittore si porta dietro dai primi studi sulle madonne tardogotiche e dal pae- saggio etnico siciliano.

La bottega di Messina riceve fin troppe commissioni ed il maestro dedica sempre meno tempo alle lunghe osservazioni di quell’umanità isolana scettica, perplessa, per coglierne la più intima essenza. Ormai quelle fisionomie familiari lo accompagnano ben oltre le ore di posa, sono visibili anche se Antonello non le guarda, filtro arcano del meditare che lo impegna in un’altra sortita, nel tem- po stavolta, nel suo tempo trascorso e ritrovato a grumi tra i dipinti. La ricogni- zione coinvolge Antonello profondamente e si risolve in un’altra di quelle sin- tesi mirabili che per il pittore come per l’uomo è anche un consuntivo.

In quest’ultima Annunciata, realizzata dopo la Pala di S.Cassiano e il S.Sebastia- no di Dresda, due tappe per il rinascere della pittura del Quattrocento, non pos- siamo non notare delle reminiscenze gotiche nella visione frontale e nella com- posizione piramidata come nel linearismo modulare, nella attenuata fisicità del corpo e nella gravità del manto che ne castiga l’evidente bellezza, fino ai trafori trilobati del leggìo. Anche per ciò, più che ad una riproduzione dal vero, pen- siamo ad una raffigurazione dell’ambiente psicologico del pittore in cui la con- venzione iconografica non ignorata è tenue presenza in un palpitare di memorie e aspirazioni che si accumulano nella costruzione di questo ritratto di donna che è pure Madonna. Con esso l’autore, svincolato dall’esistenza della somi- glianza, s’identifica meglio che con un autoritratto, nel rapporto che uomo e ar- tista hanno con il proprio ideale. Un bisogno di perfezione mai sopito libera Antonello non solo dal coinvolgimento emotivo della versione di Monaco ma anche dal tempo, immagine imperfetta dell’eterno in epoca di diffuso platoni- smo, consentendogli nella maturità il recupero di un estremo rigore geometrico dal passato. Solo nella geometria e nelle sue relazioni ha senso cercare l'assolu- to, l’anima di questo mondo, se stessi.

Una unità triangolare, simbolo perfetto ed ente visibile delle idee immutabili platoniche come della «regola de le tre cose» codificata anche da Piero della Francesca (2), è il nucleo costitutivo della struttura piramidale nella figura vista di fronte ma che pure lascia un indizio di minima torsione.

Dalla base aggettante del complesso poliedrico il modulo triangolare realizza un’articolazione spaziale passando per vari piani, oggettivi o comunque ideali, ed è riconoscibile più volte, nel leggìo, nel libro aperto, nelle mani ma, soprat- tutto, nell’incastonamento dei due profili del manto, l’interno e l’esterno, che sulla stessa traiettoria contrappongono un vertice basso visibile ed un vertice alto intuibile, l’uno chiuso sul petto l’altro aperto sopra la figura, coniugazione architettonica di finito e infinito. Il perno centrale della costruzione è compreso nella doppia assialità che dalla piega netta sulla fronte divarica, toccando lo spigolo del piano sul quale è posato il leggìo e lo spigolo di quest’ultimo, in modo da comprendere un ideale piano triangolare di scorcio con vertice all’e- stremo della stessa piega. Questo sfuggente triangolo è il cardine mediano che incerniera l’arretrare geometrico di sinistra con quello cromatico di destra dei piani del manto, come pure la divergenza assonometrica dei piani d’appoggio, sollecitando in chi osserva, l’impressione di una lievissima torsione.

 La coscienza prospettica di Antonello, attenuato lo spazio assiomatico, mette in moto l’esperienza visiva con una linearità sintetica e non analitica, cioè ita- liana e non fiamminga, classica ma disinibita rispetto al classicismo medievale e contemporaneo, così che cita appena o lascia intuire la vitalità di uno spazio che non contiene la figura ma ne è determinato al punto da essere in essa com- preso.

Un delicato contrappunto di luce e ombra combina in equilibrio il duplice al- ternarsi della composizione. La luce alta, esterna, unico riferimento interpreta- bile in chiave ultraterrena, si avvicenda con l’ombra in un dosaggio proporzio- nato, simmetrico, nel pieno rispetto del disegno, modulando la figura fin dall’a- natomia perfettamente ovale del volto in cui respira il modellato. Non siamo ancora al tonalismo, è vero, ma nelle velature a olio è evidente la innovativa sensibilità atmosferica. Tornito il volto, la luce scivola sul contorno della figura staccandola dal fondo, sul manto lapideo, sulle mani, e riflessa dal piano più basso, dal leggìo e dal libro, ridisegna le parti in ombra con effetto trasfiguran- te. E' un variare simbolico nella sospensione del moto che rispetta sempre un asse di simmetria, discrimine tra due nature o due polarità presenti nel volto in equilibrio tra luce e ombra, nel manto che varia spazialmente con scansione prospettica da una parte e col progredire dell’ombra dall’altra, e nelle mani, an- ch’esse in bilico tra luce e ombra, colte l’una mentre si chiude verso l’interno, l’altra mentre si apre verso l’esterno. Ed è già abbastanza per amplificare la lie- vissima torsione del busto in una rotazione conica della struttura piramidale.

Ma torniamo alla luce riflessa verso l’alto e leggibile soprattutto nelle mani. Qualche incertezza rappresentativa è certamente dovuta ad un restauro infelice e passa in secondo piano mentre notevole è il lievitare della celebrata mano destra, trafitta dalla luce dall’alto e sostenuta dal riflesso che la disegna in con- troluce. In quella mano sospesa vive uno scorcio prezioso del Pisanello misura- to dalla teoria della lentezza albertiana, spazialmente più sicuro ma nel gesto di- screto. Lo sguardo deviato, che se non parla non tace, cede alla mimica un ri- chiamo e nella mano, frammento lenticolare di un interiore monologo, incrocia il varco per la meditazione dell’osservatore. E il tempo è transito non transito- rio.

 

 

 

Vergine Annunciata, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Monaco

 

 

 Partito l’angelo Gabriele, dopo l’annuncio, la condizione di Maria è quella della «Meritatione», predicava fra Roberto Caracciolo di Lecce (3), divulgatore del resoconto di Luca e teorico degli stessi temi ripresi dai pittori. Il momento finale dell’Annunciazione è alla base del genere delle Annunziate e la versione di Monaco, che ad esso interamente appartiene, esprime umiltà e devozione con le mani sul petto come in uso nella tradizione pittorica e come prescritto dalle norme di comportamento codificate nei trattati. Ma se il codice mimico comu- ne per santi e devoti non era riservato esclusivamente ai soggetti ed ai temi re- ligiosi, nella solenne intimità dell’Annunciata di Palermo, e nel suo genere, la ge- stualità introduce un linguaggio profano. La Vergine non esprime stupore o gra- titudine, non guarda né addita il cielo o il ventre, non è umile ma assorta nel cogitare e non conclude l’«Angelica Confabulatione» con un commiato dall’an- gelo ma con un invito per l’uomo. La mano che non saluta e non benedice, si- curamente efficace nel coinvolgere i contemporanei attenti al variare del codice visivo, porge un messaggio aperto, che mentre desta l’attenzione placa l’emoti- vità, senza concludere il monito segreto.

Se il pittore vuole, come testimonia l’Alberti, «coi movimenti delle membra mostrare i movimenti dell’animo» (4) qui è un impulso indefinito, tra severità e dolcezza, una cosciente timidezza che nella convenzione rigenera la tensione tra forma e sentimento, tra autore e fruitore, e nella storia radica un archetipo dell’esistenzialità rinascimentale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Note


1  Cennino Cennini, Il libro dell’arte, Lanciano, 1933, p.18

 

2  Piero della Francesca, Trattato d’abaco, Pisa, 1970, p.42

 

3  Robertus Caracciulus, Specchio della fede, Venezia, 1495 (?), in  M. Baxandall,

Pittura ed esperienze sociali, Torino, 1978

 

4  Leon Battista Alberti, Della pittura, Firenze, 1950