Mito e segno mitico

di Enzo D'Angelo

 

 

 

Galahad  contempla il mitico Graal, dopo aver compiuto la ricerca.

    Da Edward Burne-Jones, La ricerca del Graal, arazzo, 1899

 

 

 

La stratificazione del mito assume, col tempo e con l’uso, una valenza simbo- lica che trascende la conoscenza immediata della storia e, più che la verità, del- l’esperienza valorizza la verosimiglianza sebbene, opportunamente decodifica- ta, possa costituire una traccia, quando non una verifica, anche per la ricerca storica.

 Un segno mitico va considerato nel rapporto simbolico con il suo significare che, al di là del rapporto causale che ne attenuerebbe la stessa ampiezza segni- ca, non si limita a indicare ma significa, come direbbe Husserl (1), costituendo il patrimonio etico, spirituale e culturale. Il pensiero mitico anzi, secondo Lévi-Strauss, con il pensiero scientifico determina dei livelli strategici a disposizione della ricerca scientifica ed utilizza dei segni che hanno la stessa concretezza delle immagini e la capacità di rapporto propria dei concetti (2). Questi segni, che stimolano la vita psichica dell’individuo e della collettività, sono per Jung gli archetipi (dal gr. arkhétypon, primo esemplare) dell’inconscio collettivo che si manifestano nel sogno o nel mito (3). Tali archetipi risalgono all’esperienza pri- mitiva, non all’invenzione, trattandosi di «un processo psichico primordiale che può anche precedere l’avvento della razza umana» (4). E benché Jung delimiti psicologicamente l’archetipo, definendolo «nient’altro che una facultas praefor- mandi», in realtà lo dilata, filosoficamente, fino all’innatismo platonico accredi- tandolo come «una possibilità di rappresentazione che è data a priori» e miran- do al soprannaturale: «Mi sembra probabile che la natura reale dell’archetipo non possa essere resa cosciente, e che sia trascendente» (5).
  Se poi l’interpretazione junghiana del mito potesse sembrare ancorata a uno spiritualismo non troppo «analitico», nonostante l’acume intuitivo, la spiegazio- ne antropologica di Malinowski, seppur meno suggestiva, ci sembra comunque lontana da ogni trascendenza fenomenologica (6) e, perciò, ancor più largamen- te accettabile: «Considerato in ciò che ha di vivo il mito non è una spiegazione destinata a soddisfare una curiosità scientifica, ma un racconto che fa rivivere una realtà originale e che risponde a un profondo bisogno religioso, ad aspira- zioni morali, a costrizioni e obblighi d’ordine sociale e anche a esigenze prati- che. Nelle civiltà primitive, il mito assolve a una funzione indispensabile: espri- me, valorizza e codifica le credenze; salvaguarda i princìpi morali e li impone; garantisce l’efficacia delle cerimonie rituali e offre all’uomo una serie di regole pratiche da seguire. Il mito è dunque un elemento essenziale della civiltà uma- na: non solo non è una vana affabulazione, ma una realtà viva a cui si continua a ricorrere; non una teoria astratta o una parata d’immagini, ma una vera codifi- cazione della religione primitiva e della saggezza pratica» (7).

 

 

                   

                         A sinistra: Nascita di Fanete,II sec. d.C., Galleria Estense, Modena

                            A destra: Nascita di Mitra, Museum of Antiquities, Newcastle

                       Un caso significativo di varianti. Il dio greco Fanete e il  dio persiano

                       Mitra, presente anche nella cultura vedica, nascono entrambi dall'uo-

                       vo cosmico dove si  leggono i segni  zodiacali.

 

 

Per quanto riguarda la fabulazione non si tratta di mera attività evasiva ma, pur con evidenti risvolti liberatori, essa manifesta, costituendolo, l’ideale e i suoi simboli, rappresentando ad un tempo il sentiero e la meta, il destino e la scelta, l’ipoteca del sogno sul reale. La fabulazione diviene espressione e meta- fora sia del pensiero, o dell’astrazione, sia della vicenda mitica già nella fase primitiva della sua diffusione orale, cioè ancor prima della rielaborazione lette- raria, arricchendo il patrimonio di una civiltà che, con le diverse varianti locali, così rivela e documenta le proprie tensioni ed aspirazioni, il rapporto con gli eventi e le ipotesi, con il vero e il veridico. Le varianti poi, che uno stesso mito presenta tra la versione italiana e quella catalana o in lingua d’oc, o tra i codici di epoche diverse, prima di un adattamento linguistico attestano l’aggiorna- mento del mito che, pertanto, testimonia la sua vitalità e quella delle istanze che lo determinano.
 

 

 

 

 

 ottobre1991                                                                                                                      articoli correlati

                                      

 

 

 

 

 

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Note

1. «Il significare non è una specie dell’essere-segno nel senso dell’indicare». E. Husserl, Logische Untersuchungen, Halle, 1922 (trad. it Ricerche logiche, Bari, 1968).

 

2. C.Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Milano, 1964.


3. C.G.Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, in Opere, vo1. 9, Torino, 1980.


4. C.G.Jung e K.Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino, 1971


5. C.G.Jung, Gli archetipi, cit.


6. Tra le posizioni critiche nei confronti della fenomenologia, o «idealismo» trascendentale, ricordiamo quella di Foucault caratterizzata da una «struttura- le» ideologia positivistica:
«La fenomenologia — anche se inizialmente si è delineata attraverso l’anti- psicologismo, o piuttosto nella misura stessa in cui, contro questo, ha fatto risorgere il problema dell’a priori e il motivo trascendentale — non ha mai potuto scongiurare l’insidiosa parentela, la vicinanza, a un tempo promettente e minacciosa, con le analisi empiriche sull’uomo; (...) pur inaugurandosi con u- na riduzione al cogito, è sempre portata a domande, alla domanda ontologica (...) in una descrizione del vissuto (...) e in un’ontologia dell’impensato, la quale mette fuori circuito il primato dell’io penso». M. Foucault, Le parole e le cose, Milano, 1978.
  Anche Heidegger fu piuttosto critico con l’approdo trascendente della feno- menologia di Husserl il cui soggettivismo trascendentale del cogito, secondo Zecchi, decade se si intende l’oggetto della percezione, la ‘cosa’, «come ogget- to simbolico e come oggetto d’uso». S. Zecchi, La Bellezza, Torino, 1990.


7. B.Malinowski, Magic, Science and Religion, New York, 1955 (trad. it. Magia, scienza e religione, Roma, 1976).