La repubblica di Magnolia
di Enzo D’Angelo
La prima repubblica è lontana in quel medioevo della memoria collettiva
che ogni società inizia a sviscerare nei dettagli non appena entra nel
futuro. Nella repubblica di Magnolia il futuro fu sempre un po’ restio a
mostrarsi e, più d’una volta nella storia, accadde che per la sua lunga
assenza si diffuse la convinzio- ne che non sarebbe più arrivato. Perciò
quel popolo d’occidente dovette ade- guarsi a vivere alla giornata in un
presente storico. Fu così che, mentre la storia per gli altri popoli era
relativa al passato, nel quasi eterno presente di Magnolia, ad ogni
secolo, regno o governo, era la stessa storia di sempre. Ma ogni volta che
il futuro decideva di apparire era come un terremoto, per quanto lesto
fos- se sembrava interminabile. In quei momenti tanto attesi per andare
avanti capi- ta allora di guardare indietro, per capire, per correggere,
per cambiare e, forse, anche per non perdersi.
I magnoliani sono giustamente noti per aver sempre brillato nelle arti
maggio- ri, nelle minori e in quelle minime. L’arte d’arrangiarsi fu una
di queste e, mini- ma solo nei costi, richiese grandi risorse d’ingegno a
tal popolo di artisti che la equiparò alle altre arti e ne fece virtù
nazionale. Il resto del mondo, sebbene impressionato, impiegò un certo
tempo per capire siffatta dimostrazione di co- me l’aggiornamento della
storia dell’arte possa allargare i confini dell’etica, ma infine capì o credette di capire, se si considera il dilagare delle emulazioni. Il
millenario avvicendarsi di generazioni creative nel dar forma e sostanza a
realtà inesistenti è certamente l’aspetto che più ha distinto questa
cultura dalle altre ed è un fenomeno che ha sempre attirato molte
interpretazioni. Subito dopo quella mistica, l’ipotesi oggi più
accreditata sembra essere quella scientifica dei geni complementari
sensibili all’ambiente ed al perdurare delle condizioni stori- che. Certo
che, al di là delle cause comprensibili ed incomprensibili, una natu- rale
pratica dell’arte astratta produsse nei secoli dei capolavori dal nulla.
Un e- sempio? Per non perdere il conforto dell’arte d’arrangiarsi si pensi
alla creazio- ne della ricchezza.
Nel paese in cui fiorirono le più incredibili varietà di metafore
s’inventarono la banca e la cambiale, la borsa ed i titoli di Stato, ci
s’indebitò coi posteri e, per non scomodare proprio nessuno, non si fecero
più figli. Geniale creatività anche nella dirittura! Chi poteva inventare
una scatola magica in cui il deposito del denaro o un suo semplice
passaggio ne moltiplicava il valore e, addirittura, arricchendo il
manovratore ancor più che il proprietario? Solo una civiltà meta- forica
poteva esaltare la quantità dando vera vita a quell’iperbole che è la ban-
ca, il tabernacolo dell’Occidente in cui le anime non hanno nomi ma
numeri, numeri per virtù e vizi, per meriti ed errori. Potevano altri
credenti concepire quell’atto di fede nell’uomo, nel suo riuscire come nel
fallire, che sostituì il de- naro con un voto, la cambiale? Fu dato a un’élite
di questo popolo eletto di tra- durre sulla terra la più efficace
versione, si disse, del giudizio universale, la bor- sa. Nell’esclusivo
recinto dove tutti corrono dietro tutto, e viceversa, è l’eterno
rendiconto delle anime, cioè dei numeri sospesi tra l’eden e l’abisso in
attesa di giudizio, mentre nulla si crea né si distrugge e il tutto, prima
o poi, passa sem- pre di mano. Se in tale luogo ogni istante conferma la
caducità delle cose uma- ne questa, si sa, è materia poetica così che tale
dev’essere anche la invenzione dei titoli che ivi si contrattano, poemi
impavidi di un’epica ventura riservati a pochi veggenti. Per tutti, o
quasi, furono invece i titoli di Stato, tutt’altro che prolissi come tanta
poesia ufficiale, questi idilliaci rendimenti entusiasmarono la
popolazione convertendo in realtà l’allegoria del benessere sociale,
finalmen- te tangibile per chiunque anche se con diverse misure. Questa
capitale inven- zione per una reale società senza classi fu il frutto di
un connubio genetico tra politici ed economisti, che si ritrovarono divisi
in una gara d’altruismo, visto che gli uni non smisero mai di attribuirla
agli altri. Da chiunque venisse, l’invi- to a credersi ricchi suscitò
adesioni unanimi. Tutti ci credettero e, convinti, chi più chi meno,
vissero da benestanti. Così, mentre il debito collettivo col futuro
ritardatario cresceva, il numero di quanti lavoravano cominciò a
diminuire. D’altronde, quale creditore è più benevolo di se stessi? E se
stessi non sono so- prattutto gli altri? Cos’è la goccia dell’uno di
fronte all’oceano di agiatezza in cui tanti navigano? Nella pluralità si
attenua ogni disagio, qualunque obbliga- zione. Persino le scadenze, se il
tempo non è che convenzione, si lasciano ri- muovere dal consenso
generale.
Non è stato ancora pattuito come fu che il benessere ebbe termine.
Nell’atte- sa di ulteriori dati storico-politici si ricorda un periodo di
stenti ed incertezze mentre le cause si cercavano per ogni dove. Si
credette di trovarle in vari modi. Si lamentarono l’invasione dal terzo
mondo, gli enormi interessi stranieri per i titoli nazionali, la mancanza
di nuove generazioni di lavoratori, la vita troppo lunga dei pensionati,
la sanità pubblica troppo lussuosa… insomma troppo di tutto. La
ricostruzione ebbe inizio con la demolizione della prima repubblica. Le
prime analisi dal futuro sembrarono una rivoluzione poiché la conseguenza
fu che si decisero grandi cambiamenti rimanendo chi si era. Nel corso
dell’ine- luttabile sconvolgimento, infatti, nessuno ignorava che una
ricca civiltà rischia- va la dispersione. Pertanto si ricoltivò la memoria
più di prima, anche quella delle sventure e dei disagi, diffondendo moniti
e richiami persino nelle strade e nelle piazze dedicate a valori quali