Dal rifiuto della storia ai nuovi storicismi

 

La mistificazione del patrimonio

 

 di Giovanni Denti
 

 

 

                                             

                                 Adolf Loos, Chicago Tribune Tower, 1922

 

 


  Uno dei primi libri letti quando iniziai gli studi di architettura fu Architettura  integrata di Walter Gropius. Erano gli anni della contestazione, e la didattica che Gropius proponeva appariva straordinariamente consona alle nuove forme di organizzazione degli studi che si andavano sperimentando nella Facoltà di Milano.
  Mi restava tuttavia una certa inquietudine per la netta chiusura verso il patri- monio rappresentato dall’eredità della storia (1), che giustificavo, aderendo alle interpretazioni della storiografia del Movimento Moderno, con il particolare cli- ma culturale degli anni ‘20; mi sembrava tuttavia necessario considerare la sto- ria come patrimonio culturale senza il quale non si può dar forma ad uno spa- zio attuale, collocato nel tempo presente, riconoscibile solo se si conosce il passato. Così come in una città siamo in grado di riconoscere le stratificazioni della storia, e nella morfologia di ogni singola parte la cultura urbanistica e ar- chitettonica di un’epoca, allo stesso modo possiamo considerare la storia come patrimonio culturale unitario, tale proprio perché ogni particella dell’insieme è riconoscibile per i suoi caratteri intrinseci.
  Nel 1980, anche a seguito di un dibattito internazionale sul Moderno mirante a superarne l’eredità culturale e linguistica, la Biennale di Architettura titolata «La presenza del passato», frutto della collaborazione fra Paolo Portoghesi e Aldo Rossi, sancì la legittimità della deregulation linguistica e della libertà degli stili. Vent’anni sono trascorsi dalla Strada Nuovissima  allestita alle Corderie del- l’Arsenale di Venezia, che all’epoca mi colpì per il suo carattere ludico, oscil- lante tra la finzione alla Las Vegas e l’ambiente di un incubo dal quale si teme di non poter mai più uscire, perché tutto ciò che appare è falso e vengono con- tinuamente meno le coordinate spazio-temporali.
  Rileggendo le dichiarazioni programmatiche che fanno da introduzione al vo- lume Postmodern pubblicato negli anni successivi, anche alla luce dei numerosi progetti e realizzazioni che nel corso degli anni ‘80 si sono ispirati a questa nuova tendenza, ci si rende conto che il tentativo di dare fondamento critico e  sistematizzazione teorica al rifiuto della modernità era basato su una mistifica- zione del significato autentico della modernità e sull’equivocità del ruolo as- segnato al patrimonio rappresentato dall’eredità della storia.
  Volendo tentare di conferire un minimo di sistematicità all’analisi di quella che potremmo, a buon diritto, definire una mistificazione del patrimonio, pos- siamo impostare un ragionamento che prende le mosse da tre fondamentali componenti della cultura architettonica contemporanea: la natura dell’architet- tura, l’eredità culturale del Movimento Moderno, la storia intesa come patrimo- nio. Tanto le argomentazioni contenute nel volume Postmodern, quanto i nume- rosi edifici riconducibili a questa tendenza realizzati nel corso degli anni ‘80, hanno evidenziato che l’interesse della ricerca postmoderna è interamente ri- volto al linguaggio, agli aspetti comunicativi, mentre le soluzioni tipologiche sono tradizionali - si invita ad imitare i tipi e, implicitamente, a trascurare l’in- novazione tipologica - se non banali e mal risolte; le componenti tecniche e tecnologiche sono considerate una questione a parte; le componenti funzionali un fastidio che nulla ha a che vedere con la vera architettura. L’architettura co- me arte del costruire, sintesi del sapere tecnico e artistico, delle vitruviane fir- mitas, utilitas, venustas, diventa una banale operazione di maquillage, di ade- guamento alla richiesta di immagine, di scenografia, poco importa se banale o kitsch: l’importante è vivere in una scenografia da gagà, avrebbe detto Adolf Loos a proposito di certi edifici di Ricardo Bofill, per citare un nome fra i più noti. Questo modo di intendere la progettazione travisa la portata dei compiti propri di architetto, che, per le responsabilità che gli competono nel dar forma agli ambienti, deve essere anzitutto un operatore culturale le cui sintesi formali riflettono un approccio globale a tutte le componenti dell’architettura.
  E’ ovvio che parlare di mistificazione del patrimonio culturale dell’architettu- ra da parte del Postmodern implica 1’accoglimento di certi risultati di un dibat- tito che ha attraversato gli ultimi due secoli dando comunque per scontate una pluralità di opinioni ed una sfaccettata gamma di interpretazioni.
  E’ invece molto più palesemente ambiguo l’insieme di argomenti con i quali si è tentato di dare fondamento al rifiuto globale del Moderno, necessario all’in- staurazione di un codice - solo linguistico, come vedremo - che, per essere giu- stificabile sul piano teorico, richiede l’azzeramento delle proposizioni e delle conquiste del Movimento Moderno. « ...l’architettura moderna è stata giudicata attraverso il suo prodotto naturale: la città moderna, la periferia senza qualità, l’ambiente urbano impoverito di valori collettivi divenuto giungla di asfalto e dormitorio; la perdita dei carattere locali, del legame con il luogo; la terribile omologazione, che ha reso le periferie di tutto il mondo simili le une alle altre senza più nulla che permetta agli abitanti di riconoscere la propria identità nella identità inconfondibile del luogo» (2). Non è così scontato che la città moderna intesa come la città nella quale oggi viviamo, sia il frutto del patrimonio cultu- rale del Moderno la cui ricerca era, al contrario, tutta volta a contrastare i deva- stanti effetti della speculazione edilizia, vera responsabile del degrado ambien- tale.

  L’accusa di annullare l’identità dei luoghi attraverso l’omologazione del lin- guaggio è del tutto arbitraria, in quanto confonde l’identità con la tipicità  fol- cloristica, mentre la ricchezza dei linguaggi - per nulla ripetitivi - di un Le Cor- busier o di un Mies van der Rohe è stata un fattore trainante nella costruzione di una identità fondata sulle conquiste dell’arte di avanguardia, della più avan- zata cultura industriale, sulla rilettura antiaccademica dell’eredità classica, su un nuovo modo di intendere il dialogo fra antico e moderno. La «terribile omo- logazione» non è certo rintracciabile nelle opere di Le Corbusier o di Walter  Gropius, che pure furono fra i più convinti sostenitori della standardizzazione: si può negare che l’Ospedale di Venezia sia intimamente legato al carattere del- la città della quale interpreta modernamente lo spirito? L’identità dei luoghi è  un patrimonio in divenire, la cui nozione si evolve con l’evolversi della sensi- bilità collettiva, la cui perdita non è dipesa da scelte estetiche, ma da un com- plesso di fattori economici e sociali ai quali l’architettura moderna ha tentato di opporsi. Molti addebiti andrebbero mossi all’International Style, responsabile di aver ridotto la ricerca moderna ad un problema di stile; confondere artatamente il patrimonio dei C.I.A.M.. con lo Stile Internazionale è quindi un’operazione di carattere propagandistico che non distingue fra contenuti culturali diversi, ed è perciò dubbia sul piano critico.
  Ciò che veramente distingue l’architettura moderna da quella delle epoche precedenti è l’estensione degli interessi culturali della disciplina dagli edifici monumentali e rappresentativi alle abitazioni a basso costo e ai quartieri urba- ni. La necessità della conservazione del moderno, derivante dal suo rapido de- grado, ha evidenziato la sua delicatezza, che è stata spesso causa di perdita del- la qualità ambientale, ma sarà la citazione degli stili ad ovviare alla corrosione dell’intonaco bianco?
  L’atteggiamento critico e, in ultima analisi, mistificatorio nei confronti del Moderno, ha un riscontro nella considerazione sul modo con il quale il Postmo- derno ha interpretato il rapporto con il patrimonio della storia. Il fondamento teorico è che l’evoluzione della storia non è lineare ma ciclica, «la storia si ripe- te», e che la costante tensione al rinnovamento si pone fuori dal naturale ripe- tersi di ciò che è stato. Pur dando per scontato che la storia di cui si parla sia quella delle forme architettoniche, visto che la storia come teatro degli eventi umani non ha mai conosciuto il ripetersi delle scene, non si può comunque ac- cettare l’idea che la ripresa di forme legate ad epoche più o meno lontane, pos- sa essere un fatto citazionistico, e non legato, come fu ad esempio per il Rina- scimento, ad una riflessione globale sulle componenti dello spazio architettoni- co.
  Avverto sempre un certo disagio quando sento affermare che si deve preferire l’imitazione alla innovazione quasi demonizzando la ricerca del nuovo, identi- ficato come causa dei mali che affliggono il mondo in cui viviamo. Una rispo- sta attualissima per spirito ed atteggiamento ci viene da quanto scrisse France- sco Borromini nell’Opus Architectonicum:
« ...e pregoli ricordarsi, quando talvolta gli paja, che io mi allontani dai comuni disegni, di quello, che diceva Michel Angelo Prencipe degl’Architetti, che chi segue altri non gli va mai innanzi, ed io al certo non mi sarei posto a questa professione, col fine d’esser solo Copi- sta... » (4)
  Altro significato assumeva l’attualità della tradizione nell’opera di Loos, la cui colonna del Chicago Tribune compariva con l’ambiguo significato di metamor- fosi ludica della forma nella facciata di Hans Hollein per la Strada Nuovissima, tradendo il suo valore di patrimonio eterno e atemporale. La tradizione, per Loos, è il patrimonio ereditato dalla storia, attuale nella forma in cui si presenta oggi e in lenta ma costante evoluzione sulla spinta delle innovazioni tecniche e del rinnovarsi delle istanze di una società in trasformazione. Davanti alle cita- zioni di finestre serliane, ordini più o meno giganti, cornicioni baroccheggianti, viene quasi spontaneo ricordare le critiche allo storicismo del Ring espresse nella «città alla Potemkin» ironicamente descritta da Loos come una masche- rata che da un lato non è in grado di esprimere lo spirito del proprio tempo, e dall’altro, interrompendo lo sviluppo della tradizione, tradisce lo spirito del pa- trimonio che la storia ci ha tramandato. Loos ha spesso parlato dell’uomo mo- derno che usa il proprio vestito come maschera, e dell’esterno della casa che, come una maschera, deve essere muto. La maschera cela mostrando la propria autenticità ben diversamente da un travestimento che inganna facendo suppor- re una realtà sostanzialmente falsa. Chi vuol dare ad intendere di essere quello che non è, è un imbroglione, affermava Loos, parlando delle architetture del Ring, progenitrici di nuovi storicismi che privilegiano esclusivamente l’arte del travestimento a discapito dell’integrità della cultura del costruire. Occorre dun- que una severa riflessione, a meno che si pensi davvero che la rinuncia alla ri- cerca tipologica, in un’epoca di radicale cambiamento dei modi di vivere e di stare nella città come la nostra, possa essere surrogata da apparati scenografici come quelli di Marne-la-Vallée, destinati ad un degrado che li renderà simili ad uno scenario hollywoodiano dismesso, o a citazioni episodicamente inserite in edifici comunque banali.
  Sminuire il patrimonio della storia a catalogo dal quale attingere forme, al di fuori di una qualsiasi contestualizzazione spazio-temporale, è una operazione che riduce il fare architettura ad attività puramente ludica ed estetizzante, va- lutabile solo attraverso parametri inerenti il gusto e trascurando le componenti tipologico-funzionali così importanti, con quelle linguistiche, nella definizione della qualità ambientale.
  Edoardo Persico, commentando le opere dei primi anni ‘30, lamentava che ci si preoccupasse più dello «stile» che dell’architettura in senso proprio, con tutte le sue applicazioni di natura civile e sociale; con il postmoderno ci troviamo di fronte ad un problema analogo, e il fatto di avere inventato uno stile «alla mo- da» non fa del postmoderno un’architettura moderna. Il passato è un patrimo- nio culturale che ci racconta una evoluzione del pensiero, una continua rimedi- tazione sui tipi, sulle tecniche, sui linguaggi; la riduzione della ricerca di questa eredità ad una deregulation revivalistica rappresenta un tradimento delle possibi- lità di collocare lo spirito moderno nel solco di una tradizione che sia al con- tempo coscienza del passato e ricerca del nuovo come necessario adeguamento del sapere antico al modo di essere del mondo contemporaneo.
  Questo insieme di considerazioni, che hanno ripreso una polemica un po’ da- tata, ma non del tutto inattuale, visto che, tramontate le illusioni postmoderne di avere trovato la via di una nuova modernità, il confine fra moda e architettu- ra continua ad essere assai labile, vuole concludersi con un auspicio: interrogar- si sul patrimonio è divenuta una necessità imprescindibile per chi opera nel set- tore del restauro, ed il rispetto per i caratteri materiali e culturali dell’eredità storica è divenuto un carattere fondamentale della conservazione.
  La cultura della conservazione del patrimonio edilizio ha portato a riflettere sul rapporto fra costruire e conservare, e dunque sul ruolo che noi assegniamo all’eredità della storia. D’altra parte, nonostante le separatezze accademiche spingano in direzione opposta, conservazione dell’esistente e progettazione del nuovo altro non sono che due applicazioni della progettazione architettonica, che è artificioso smembrare in settori specialistici dai confini rigidamente trac- ciati. Il rapporto con l’eredità culturale e materiale della storia è dunque una questione eminentemente progettuale; anche la cultura del progetto, sedimen- tata nel tempo, è continuamente arricchita dall’evoluzione dei modi di costrui- re e dei modi di abitare. Il patrimonio della cultura del progetto è un insieme nel quale convivono e si integrano princìpi intrinseci all’idea stessa del costrui- re, classici, e dunque validi al di là del tempo e dello spazio, e di forme che, re- gistrando i progressi tecnici e il divenire delle culture, hanno attualizzato quei princìpi in uno spazio e in un tempo. In un’accezione neoplatonica, i princìpi a- temporali identificano il concetto stesso di classico come ciò che non è né anti- co né moderno, o che, se si preferisce, è sempre moderno in quanto non legato a fattori contingenti. Così anche la progettazione può identificare il significato autentico del proprio patrimonio riconoscendo nell’architettura di oggi l’im- pronta di una lunga tradizione e nella forma che questa ha oggi assunto, tutto il tempo che ci separa dalle forme che nel passato furono moderne.

 


 



febbraio 2000


 

 

 

 


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Note

1.  Cfr. W. Gropius, Architettura integrata,  Il Saggiatore, Milano, 1963, pp. 58-78

2.  P. Portoghesi, Postmodern, Electa, Milano, 1982, p. 7

3.  ivi,p.8

4.  F. Borromini, Opus Architectonicum, dall’edizione Giannini del 1725