Alexander Dubcek

 

27.11.1921 - 7.11.1992

 

Segretario generale del PCC dal 5 gennaio 1968 al 17 aprile 1969, poi presidente dell'Assemblea federale e ambasciatore ad Ankara. Espulso dal partito nel 1970, ha lavorato come operaio in una impresa forestale a Bratislava. Tra i vari riconoscimenti, il 13 novembre 1988 ha ricevuto la laurea honoris causa  in Scienze Politiche all'Università di Bologna. Nel 1989 è stato eletto pre- sidente del Parlamento nazionale.

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Un sogno lecito

di Enzo D'Angelo

 

 

Praga 1968

 

 

Alexander Dubcek esce di scena per l'ultima volta in una sera d'autunno, sen- za clamore, con la discrezione di sempre. Nel lungo periodo di coma era inizia- to un silenzio che gli ha evitato di commentare gli ultimi giorni di una Cecoslo- vacchia che chiamava «la mia patria» e con la quale la sua vicenda s'identifica to- talmente, per scelta e per fato.

Un destino più nazionale che personale il suo. Qualche conservatore di buona me- memoria direbbe che Dubcek non è che un pleonasmo di Eduard  Beneš, il presi- dente della Cecoslovacchia additata dagli occidentali come un modello di de- mocrazia e poi sacrificata con disinvoltura, prima a Hitler e poi a Stalin. Ma ad interrogare la storia si accetta la realtà del paradosso.

Tra qualche mese Dubcek sarebbe stato certamente il presidente della nuova repubblica slovacca, alla quale si è opposto, separatasi da Boemia e Moravia so- prattutto per il rancore degli ex-comunisti ora nazionalisti col simbolo del regi- me bellico filonazista. A questi ultimi recentemente Dubcek si contrapponeva con il partito socialdemocratico, mirando alla coalizione di una sinistra demo- cratica.

Il leader della «primavera di Praga» ha rappresentato una regione da sempre in precario equilibrio tra pangermanismo e panslavismo che la costituzione dello stato cecoslovacco, dalle ceneri dell'impero asburgico, non risolse. Nato nel 1921, Dubcek si sentì il figlio di quella patria composita e rifiutò sempre di cre- derla divisibile nonostante le tensioni disgregatrici, interne ed esterne. Era con- vinto che la reciproca autonomia in uno stato federale avrebbe fatto dimentica- re a cechi e slovacchi quei risentimenti che, del resto, avevano sempre messo da parte in caso di pericolo.

Di formazione marxista, Dubcek approdò a ideali di democrazia sociale plu- ralista e progressista sempre vivi in una Praga, colta capitale europea, in cui già Masaryk e Beneš praticarono pragmaticamente l'unica politica possibile per il piccolo stato compresso da interessi e potenze sovrastanti, quella della «via di mezzo». Dubcek, come prima Beneš, fu costretto a subire per il suo paese la lo- gica dei blocchi, la legge e i compromessi dei più forti; a fidarsi dell'Unione So- vietica senza alternative; a mediare cedendo via via per salvare il salvabile e proprio la tenacia nell'evitare il peggio ai connazionali gli fece ricevere il biasi- mo da una parte di quelle folle che per lui scendevano entusiaste in piazza.

Nel 1968, dopo l'invasione delle truppe del patto di Varsavia, Dubcek fu so- stenuto e difeso dai cecoslovacchi ma rimase isolato diplomaticamente, come era accaduto a Beneš nel 1938, a Monaco, e nel 1948 a Praga. Quale difesa po- teva approntare, in quei mesi frenetici della «primavera» e dell'estate, il  piccolo stato isolato con le frontiere estese e praticamente indifendibili che ospitava manovre senza fine delle divisioni sovietiche? I russi erano ovunque, come te- stimoniavano le lettere dei cittadini ai giornali. In seguito si seppe che l'invasio- ne fu annunciata da Mosca anche alle potenze occidentali. Perché stupirsi poi delle tiepide e rassegnate proteste o dell'indifferenza dell'Onu?

Chissà a quale logica asfittica e amorale obbedisce quel senno di poi che defi- nisce ingenuità la fiducia in un'idea o un'azione repressa o non completamente realizzata e proclama fede l'idea che si realizza?

Dopo lo sgretolamento dell'Unione Sovietica, della Jugoslavia e di Solidarnosc nessuno ha definito ingenui Gorbaciov, Tito o Walesa, che pure hanno percorso la stessa strada di Dubcek. Quella porzione d'ingenuità che si può riconoscere a Dubcek è tipica delle convinzioni profonde. In pochi mesi un ignoto dirigente comunista che girava armato di sorriso e buonsenso, ma senza la scorta invoca- ta dai giornalisti, si trasformò in un simbolo internazionale e duraturo dei diritti umani e civili, della democrazia e della distensione. Nonostante l'isolamento e la repressione il processo di cambiamento fu innescato.

Non sappiamo quanto di Socrate sia di Platone, quanto appartiene all'uomo e quanto alla figura ideale mirabilmente descritta dal discepolo. Ma l'accettazione socratica dell'ingiustizia, la coerenza stoica, il dignitoso silenzio di Dubcek sono ancora davanti ai nostri occhi e confermano la grandezza dell'uomo. La strada che scelse e quanto è avvenuto negli ultimi anni dimostrano che il suo sogno era lecito.          

 

 

novembre 1992

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Giorgio Napolitano

presidente della Camera dei deputati

 

Partecipo con profonda commozione al cordoglio dei democratici cecoslovac- chi per la scomparsa di Alexander Dubcek. Il suo impegno per la liberalizza- zione e le riforme nella primavera 1968, la sua resistenza alla politica di forza del patto di Varsavia e alla brutale repressione di ogni pluralismo democratico all'interno del paese hanno costituito un esempio di straordinaria importanza per la maturazione di nuove prospettive in tutto l'est. Le deprivazioni e  mortifi- cazioni personalmente subite per 20 anni non impedirono a Dubcek di restare fedele alle sue convinzioni e di riprendere appena possibile il suo posto nella battaglia per la democrazia e nella ricostruzione di un sistema pluralistico in Ce- coslovacchia.

La sua opera di presidente del parlamento ha confermato le sue doti di equilibrio e di lungimiranza fino al momento in cui ha dovuto impegnarsi nel difficile tentativo di preservare l'unità  dello stato democratico cecoslovacco.

I miei rapporti e incontri con Dubcek avevano permesso di ap- prezzare meglio la straordinaria sensibilità e nobiltà del suo ani- mo di combattente politico per un socialismo dal volto umano.  

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Giovanni Spadolini

presidente del Senato

 

Come presidente del Senato e come rappresentante dell'Italia ho portato il no- stro cordoglio alla nazione cecoslovacca per la scomparsa di uno dei suoi figli più illustri. Ebbi la fortuna di incontrarlo numerose volte quando era presidente dell'assemblea federale cecoslovacca. La dolorosa parabola della sua vita riassu- me la grande tragedia della sinistra europea. L'illusione della prima gioventù; l'insurrezione comunista nella Praga dell'44; la sua scalata all'interno del partito fino alla primavera del '68 quando si arrestò di fronte alla rottura con Mosca; quindi la grigia sopravvivenza in patria e alla fine dei suoi giorni, e dopo aver visto sfumare gli ideali del socialismo dal volto umano, l'amaro  destino di do- ver assistere alla divisione del suo paese in due repubbliche che egli aveva spe- rato di evitare con la federazione.

Con lui scompare uno dei  protagonisti di questo secolo nella grandezza delle sue contraddizioni e dei suoi slanci di libertà in cui il contributo alla causa della libertà e della democrazia dei popoli dell'oriente europeo potrà essere piena- mente apprezzato solo  quando il trascorrer del tempo ci avrà fatto acquisire la giusta prospettiva degli avvenimenti degli ultimi decenni.

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Zeffiro Ciuffoletti

storico, Università di Firenze

 

Sta per uscire negli Stati Uniti una autobiografia di Alexander Dubcek che ci permetterà di vedere dall'interno il ruolo del leader della «Primavera di Praga», quel grande moto di liberazione che scosse il mondo del socialismo reale e con- tribuì a svelare i tratti autoritari e violenti del sistema sovietico e del comuni- smo.

Si vide allora con chiarezza l'impossibilità di riformare dall'interno il comuni- smo. L'esperienza si è ripetuta con il tentativo di Gorbaciov che meglio di ogni altro, agendo dal cuore dell'impero, ha dimostrato di quante difficoltà ed osta- coli fosse lastricata la via delle riforme nei sistemi totalitari a partito unico.

Ed in effetti il dramma dei rifondatori che agivano all'interno del socialismo reale è stato proprio quello di scontrarsi col partito, chia- ve di volta e pilastro del sistema.

In questo senso Dubcek tentò di passare dal comuni- smo reale al socialismo dal volto umano ma si scontrò  con il Partito e con la dipendenza ideologica, materiale e militare.Il sogno di Dubcek si infranse proprio negli osta- coli insormontabili rappresentati da questo sistema, sve- lando la terribile realtà che si celava sotto un mito: il mi- to del Comunismo.

 

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Ennio Di Nolfo

storico, Università di Firenze

 

I meno giovani hanno certo ancora ben evidenti nella memoria le immagini dell'agosto 1968: quando Dubcek venne trascinato con l'inganno a Mosca, dove avrebbe subito le imposizioni di Breznev, e quando rientrò in patria, un uomo disfatto dallo sconforto. Sino a quel momento Dubcek aveva rappresentato la speranza di conciliare le amare realtà del «socialismo reale» con i sogni di chi a- veva creduto e credeva che pur all'ombra della bandiera sovietica, vi fosse lo spazio per trasformare l'oppressione in qualcosa di diverso. Non è facile dise- gnare oggi gli obiettivi di ciò che allora si chiamò la «primavera di Praga». Essi erano un insieme di speranze e di illusioni; miravano a recuperare la libertà al- l'interno di un sistema di potere e in uno schieramento internazionale che non poteva consentire concessioni, poiché l'apertura di un varco avrebbe provocato la caduta di tutto un muro: che in Cecoslovacchia era metaforico ma a Berlino reale.

Dubcek fu il protagonista di quella stagione di illusioni e speranze. Un uomo candido nell'animo e trasparente nelle intenzioni. Una persona docile e misurata in un quadro disegnato dalla violenza. Dopo di allora egli si rassegnò con misu- ra a un rapido tramonto. Divenne in brave un modesto operaio slovacco, rasse- gnato a subire in patria umiliazioni formali che certo non piegavano la sua dirit- tura morale: dietro quell'aria docile esisteva invece un'indole forte e severa, una coerenza morale che non subiva compromessi. La sua resistenza divenne un simbolo e un monito. Negli anni del ritorno alla democrazia la sua figura, pur connotata da una coerenza ideologica divenuta quasi anacronistica, restò im- portante proprio per le virtù dell'uomo.

 

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Giuseppe Tamburrano

storico, presidente della Fondazione P. Nenni

 

Rileggendo a distanza di meno di cinque anni questo testo (Socialismo e Demo- crazia) di Dubcek ci si rende conto della velocità con la quale la storia ha corso in Europa orientale. Nell'aprile del 1988 in Cecoslovacchia erano ancora al po- tere i comunisti di Jakes e a Dubcek era impedito di lasciare il territorio della sua patria. Eppure il padre della «Primavera di Praga» non è un sovversivo: si dichiara un comunista, esalta Togliatti e appoggia con entusiasmo la politica di  Gorbaciov. Il suo torto è di credere nei valori della democrazia, «inseparabile dal socialismo», e di rivendicare i meriti della Primavera di Praga che inaugurò nel 1968 il «socialismo dal volto umano» e che fu soppressa violentemente dai carri armati russi. Perciò egli rappresenta un pericolo per l'apparato comunista che ancora domina in Cecoslovacchia fingendo di essere favorevole alla pere- stroika.

Nel giro di pochi mesi quel gruppo di potere fu travolto e le idee di Dubcek trionfarono: chi ha dimenticato il suo viso, solitamente triste, raggiante di fronte ad una immensa folla che aveva travolto il regime e che la TV ha mostrato a tutto il mondo? Eppure il trionfo di Dubcek durò poco, pochissimo. Fu un ve- locissimo passaggio verso altri uomini, estranei, e anche ostili non solo al comu- nismo revisionista, ma allo stesso socialismo democratico, il cui leader è stato Havel, un esponente delle correnti liberal-democratiche. Dubcek e la sua cor- rente furono travolti: gli furono date cariche rappresentative prive di potere. Ri- cordo il suo viso, tornato triste, nella Praga anticomunista del 1991. Oggi non c'è più il comunismo revisionista di Dubcek che era in realtà socialismo demo- cratico, non ci sono forti tendenze di sinistra.

È stato messo da parte lo stesso Havel. Non c'è più la Cecoslovacchia spez- zata in due stati ostili, anche se fino a questo momento senza le armi al piede. Hanno preso o ripreso il potere a Praga esponenti della borghesia capitalistica che possiamo definire, per ora, «illuminata», mentre a Bratislava il potere è ca- duto - o ricaduto - nelle mani di uomini del passato, espressione di un blocco  nazional-comunista che sta avendo un pericoloso successo anche in altri paesi ex comunisti dopo la sbornia liberista e le illusioni miracolistiche del mercato thatcheriano di questo confuso periodo di transizione.

Transizione verso che cosa? Dalla Jugoslavia ai confini con la Cina l'impero  sovietico è in preda a pericolose convulsioni interne in cui c'è di tutto: odi raz- ziali, fanatismi religiosi, contrasti etnici, rivendicazioni nazionalistiche, rivolte della penuria, lotte di potere. Non ci sono o sono debolissime le idee di Alexan- der Dubcek: la verità è che il crollo del comunismo non ha fatto rifiorire i valo- ri del «socialismo dal volto umano».

 

 

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Severino Saccardi

redazione di «Testimonianze»

 

Molti di noi lo ricordano, Dubcek, al festival de «L'Unità» di Firenze dello scorso anno. Dove declinò, di nuovo, i temi a lui cari: la democrazia, il rigetto del nazionalismo, il rilancio di un'economia sociale di mercato (capace di tener presenti gli strati deboli della società). I temi di un uomo che massimamente ha mostrato di tenere ai valori dei diritti umani. Ed a quelli della pace e della non violenza. C'era chi, tra gli esuli cecoslovacchi, a volte, lo criticava per aver capi- tolato di fronte ai sovietici durante la deportazione a Mosca, subito dopo l'inva- sione dell'agosto '68. E per non aver, allora, ordinato la resistenza armata. Ma si trattò - Dubcek l'ha sempre rivendicato - non di cedimento, ma di scelta con- sapevole. Fu evitato un bagno di sangue ed i cechi e gli slovacchi  seppero ren- dere infinite testimonianze di resistenza non violenta ( la folla intorno ai carri armati) agli aggressori.

Il leader della «Primavera di Praga» era anche un convinto sostenitore della distensione internazionale. Non, però, di una distensione che condannasse al- l'immobilismo della vecchia logica di Yalta ed alla glaciazione dei blocchi con- trapposti, ma che fosse capace di rimettere in movimento la situazione. A que- sto, evidentemente, mirava il coraggioso e sfortunato esperimento del '68.

L'Atto di Helsinki, del '75, sembrò invece inizialmente confermare proprio lo status quo. Il dialogo Est-Ovest sembrava mettere tra parentesi esperienze ereti- che come la «Primavera di Praga». La concezione immobilistica cara ai sovietici sembrava trionfare. Solzenicyn disse che Helsinki era il «sepolcro dei popoli eu- ropei». Ma c'era in questo giudizio una sottovalutazione di quella parte del mes- saggio di Helsinki che parlava di diritti umani e di libertà di movimento. Che a- vrebbe fornito un'arma preziosa a dissidenti coraggiosi come Sacharov e Havel, a movimenti come Charta '77 e Solidarnosc. E che avrebbe rappresentato un ri- ferimento, un elemento di intima speranza per quelli che, come Dubcek, atten- devano la restituzione dell'«onore politico».

 Dubcek ha sempre coltivato una concezione dinamica della distensione che potesse render possibile il dipanarsi di quel «filo d'oro» (così si era espresso l'ex leader del «nuovo corso» nel suo ultimo intervento radiofonico) che avrebbe poi portato «dalla 'Primavera di Praga' a Michail Gorbaciov, da Gorbaciov alla no- stra rivoluzione di velluto». Quella «rivoluzione di velluto» dell'89 che, pacifi- camente, in un oceano di folla, avrebbe riportato insieme Havel e Dubcek al Castello.

 

novembre 1992