Etica e politica

di Eugenio Garin

 

 

 

In questi giorni così amari per il nostro paese, capita spesso di ve- dere rievocati antichi problemi e di rileggere pagine che già ci colpi- rono per le questioni che mettevano a fuoco. Riemerge così di con- tinuo, e non sempre in forme corrette, il tema dei rapporti fra etica  e politica, mentre tornano anche logori luoghi comuni come «il fine giustifica i mezzi» o, magari, «la violenza è levatrice di ogni vecchia società gravida di una società nuova». Col titolo, appunto, di Etica e politica Benedetto Croce pubbli- cava nel 1930 un volume che per alcune sue tesi, nell'opera crociana del resto non nuove, ha fatto a lungo riflettere e discutere. Croce, nella vita pratica, di- stingueva due momenti: «di coscienza e azione politica da una parte e coscien- za e azione morale dall'altra».

La politica si muoverebbe sul terreno dell'utilità, sarebbe volontà del partico- lare, economicità.

«La cerchia della politica - così nel 1984 Norberto Bobbio faceva parlare Cro- ce - è quella dell'utilità, degli affari, dei negoziati, delle lotte, e in queste conti- nue guerre individui, popoli e Stati stanno vigili contro individui, popoli e Stati, intenti a mantenere e a promuovere la propria esistenza, rispettando l'altrui so- lo in quanto giovi a questa loro propria». Solo che, per Croce, la morale, ossia la volontà che opera per princìpi universali ossia per il dovere e basta, correg- gere, integra e supera la vita politica, ossia, nella veduta di Croce, il momento dell'economia e del diritto (che si riduce nella sfera dell'economico).

Croce raccomandava di non perdere mai di vista il nesso fra i due momenti della vita pratica, e metteva in guardia contro ogni astratta separazione fra mo- rale e politica. La sua insistenza, però, sul significato di Machiavelli vero fon- datore della scienza politica, o su Marx con la sua visione concreta e profonda del moto della storia, mostrava in pieno il valore che riconosceva alle teorie del pensatore rivoluzionario che aveva capito bene il senso della «forza o potenza (mentale, culturale, etica, economica)», e sottolineava a un tempo la sua di- stanza da «sermoni moralistici» e la sfiducia «nelle ideologie e ciarle illumini- stiche». Rimase tuttavia sempre fermissimo nella sua  tesi sul primato della mo- rale, sulla necessità di mettere sempre «la forza a servizio di un ideale di liber- tà» e di combattere chi «l'adopera a sostegno di un ideale autoritario».

Non è certo il caso, pur in questo riaccendersi di interessi per il grande pensa- tore napoletano, di approfondire il significato del suo debito, del resto da lui mai sottovalutato, verso Marx e Antonio Labriola, o della radice morale della sua giovanile simpatia per il socialismo. E neppure è possibile discutere a fon- do le conseguenze - e più esatto sarebbe dire gli svolgimenti, e magari le oscil- lazioni e il variare di accenti - delle sue posizioni sul primato della morale, che pure rimasero nel fondo fedeli alla commossa fiducia nel progresso e  nell'asce- sa morale dell'uomo, con cui nel 1908 concluse la sua Filosofia della pratica : fi- ducia nella vita, che «non è mai definitiva», e fiducia nella verità «sempre cinta di mistero».

Riemerge, invece, il ricordo delle discussioni su etica e politica, e quindi, a volte, anche su Croce, che si fecero più fitte, più incalzanti, fra gli anni Settan- ta e Ottanta.

Tornano alla mente, con gli anni del terrorismo e delle stragi, in mezzo a una lotta tragica, le riflessioni dei filosofi, gl'incontri e i dibattiti sui valori che tra- montavano o emergevano, mentre un mondo senza pace che aveva creduto di essersi in qualche modo 'sistemato' con la fine della seconda guerra mondiale andava avviandosi verso la sua catastrofica dissoluzione con conseguenze che si stanno svolgendo davanti ai nostri occhi.

È difficile, oggi, in Italia, sotto la spinta di eventi attuali - la potenza della malavita organizzata che dal sud del paese è partita alla penetrazione del nord; la crisi anche morale dei partiti, con la corruzione profonda dei gruppi di potere non solo del nord, ma di una parte notevole di tutto il paese - evitare di ripen- sare con angoscia tutta la vicenda italiana. È impossibile non riproporsi il tema del rapporto fra etica e politica (la «questione morale»), anche se poi il problema è presentato spesso in forma non felice e non esatta, e magari è di proposito re- so ambiguo e deformato per trovare attenuanti e reati comuni come il ricatto, il furto, la truffa e, magari, l'omicidio, che però non mutano natura per la patina «politica» con cui vengono coperti.

Non è possibile eludere certe domande essenziali, ieri davanti a un terrorismo senza esclusione di colpi, oggi di fronte alla corruzione sempre più diffusa fra gruppi dirigenti e partiti politici, mentre la malavita organizzata celebra la sua potenza, sorretta da alleanze d'ogni genere, non solo con le stragi spettacolari dei magistrati di Palermo ma con gli incendi di Catania o di Bari. Quale è il punto in cui un progetto politico non giustifica in nessun modo gli atti che al- cuni, presumibilmente in buona fede, compiono per un'idea e una fede che ri- tengono giusta? e il ricatto, la minaccia, il furto, a vantaggio di una parte politi- ca  a cui si aderisce, ma da cui anche si ottengono vantaggi, o comunque 'grati- tudine', possono mai essere giustificati come accorgimenti politici, o non devo- no invece essere condannati senza attenuanti come reati dei più volgari?

Negli anni più drammatici del terrorismo Bobbio scrisse su La Stampa articoli degni di essere ripensati, così come sono da meditare suoi scritti posteriori, ap- punto sul rapporto fra etica e politica. Soprattutto là dove si prospetta il paral- lelismo delle vie dell'etica e della politica: due percorsi, dice, che non si incon- trano mai (o 'raramente', soggiunge una volta, incurante dei postulati della geo- metria). Scriveva il 6 marzo 1979: «Un'azione moralmente buona è un'azione che è stata compiuta nel rispetto di certi princìpi universali (o comunque cre- duti tali da chi la compie); un'azione politicamente buona è un'azione che ha a- vuto successo (che ha raggiunto lo scopo che gli agenti si erano proposti)».

«La morale o etica dei princìpi» si pone di fronte alla «politica o etica dei re- sultati utili»: «due codici differenti ma necessari», almeno per l'uomo che sulla terra è, insieme, politico e morale. Bobbio che indica nel dualismo reale (non flessi- bile) l'unica dottrina che non prescrive né giustifica ma prende atto, non può non giungere a una conclusione amara. «La storia dei giusti e quella dei  potenti - scrive nell'84 - non solo sono due storie parallele che non si incontrano, ma sinora la storia che ha celebrato e continua a celebrare i propri trionfi non è la prima, ma la seconda»: non l'etica, ma la politica.

Senonché, probabilmente, la vicenda italiana è stata anche più amara di quel- la che si profilò negli «anni di piombo», intessuta sempre di più di intrighi nel- l'ombra, di vicende moralmente inique protette da immutabili gruppi di potere, mentre l'opera della delinquenza organizzata si intrecciava all'operato di parti politiche potenti quanto corrotte, e mentre cittadini innocenti, e talora  autenti- ci «eroi borghesi», cadevano in una guerra oscura. Per questo, mentre «la storia dei giusti» diventava troppo spesso una storia di morti ammazzati, «la storia dei potenti» si è convertita in quella di colpevoli di reati comuni ai sensi di qualsia- si codice penale. Per questo, non a torto, qualcuno si è addirittura rifiutato, in queste vicende, di parlare di «questione morale».      

 

 

 

luglio 1992