Istituzioni e partiti: trasparenza e fragilità *

di Antonio Landolfi

 

 


  Una vastissima letteratura, ed una ancor più vasta pubblicistica, dagli ormai classici Mosca, Pareto e Michels, fino a Sartori, Bobbio e Pane- bianco (per citarne solo alcuni) in Italia, e Lesewell, Kircheimer, Neu- mann tra i non italiani, affrontano in modo approfondito, ed a volte giustamen- te impietoso, il fenomeno della vita dei partiti, e dei rapporti tra questi e le isti- tuzioni.
   C’è in sede politica, come sempre, una critica di destra, e una critica da sini- stra. Alcune forze politiche spingono la loro critica a quella che definiscono la «partitocrazia», fino a collocarsi, almeno nelle loro dichiarazioni, ai limiti del si- stema dei partiti. Ciò è inevitabile, perché in una democrazia moderna il pro- blema dei partiti è il problema stesso del potere politico e la forma-partito è la forma stessa del potere politico moderno. Tant’è vero, che quelle correnti ideo- logiche e politiche le quali nel nostro secolo hanno più radicalmente contestato il sistema pluralistico dei partiti (la corrente leninista-stalinista e quella fasci- sta-nazista) hanno poi finito per produrre la forma più esasperata di «partitocra- zia»: quella del partito unico.
   Siamo giunti, nella fase attuale, rispetto a questo problema, ad un punto di maturazione importante, perché la polemica sui partiti e sul loro rapporto con le istituzioni, non rischia più di scadere a polemica ispirata ad ipotesi e ad o- biettivi di natura antipluralistica ed antidemocratica. Anzi, all’opposto, si fa strada una generale convinzione che perdurando lo stato di cose che molti regi- strano criticamente nella vita dei partiti e nei partiti, se non interviene un qual- che correttivo ad esso, si fa strada il timore che si vada rapidamente verso una situazione di crisi storica dell’attuale sistema dei partiti. Ha osservato di recen- te Massimo Salvadori che delle tre grandi fasi storiche attraversate dal sistema politico italiano, dall’Unità ad oggi, le prime due (quella monarchico-costitu-zionale, e quella del fascismo) si sono concluse traumaticamente, perché non furono in grado di produrre alternative riformatrici a sé medesime (1). Venne a mancare la possibilità, la prima volta, di un passaggio ad un sistema di alleanze di potere fondato sui partiti popolari di massa; la seconda volta, la possibilità di un’alternativa interna al regime fascista stesso, come quella che avrebbe potuto basarsi, ad esempio, sul prevalere di una corrente tipo quella che, in extremis, si coagulò intorno alla triade Grandi-Ciano-Bottai.
   Ne’ Salvadori, né chi scrive intendono ovviamente dare giudizi di valore. Con Salvadori si deve essere d’accordo nel rilevare come queste due fasi stori- che si conclusero entrambe con una trasformazione traumatica cioè con un cambiamento istituzionale della organizzazione generale del potere politico, non derivante da un’autoriforma interna al sistema che era entrato in crisi.
   A quarant’anni dall’inizio della terza grande fase della vita nazionale sembra ormai non del tutto astratto il pericolo che, con l’acuirsi dei fenomeni di de- generazione del sistema politico, si vada incontro alla possibilità di un muta- mento morfologico dello stesso sistema, per assenza di processi riformatori rea- li, non puramente di facciata, o comunque marginali. Processi riformatori che non si vedono ancora avviarsi: non si sono avviati con la politica del centrosi-nistra; neppure con la politica di «solidarietà nazionale», che, anzi, come ha di- mostrato Gismondi in una sua approfondita analisi (2), in quel periodo (1976- 79) l’assimilazione dell’opposizione comunista alle pratiche di governo ha fini- to addirittura per esacerbare alcuni degli aspetti più vistosi della degenerazio-ne. Non si vedono neppure apparire, questi processi riformatori, nella fase delle maggioranze pentapartitiche, in cui l’affermarsi dei concetti di «stabilità» e di «governabilità» non appaiono accompagnati da valide iniziative rivolte ad un mutamento profondo nella vita dei partiti, ed all’interno di essi.
   Quali sono i punti salienti dei processi involutivi in atto? Mi limito ad indi- carne e ad approfondirne alcuni che appaiono come i più vistosi, e quelli mag- giormente gravidi di germi di crisi del sistema democratico.
   Il primo punto mi sembra essere quello della progressiva ed ormai inarrestabi- le corrispondenza della prassi partitica italiana al modello disegnato notoria- mente da Kircheimer, nella sua analisi della mutazione del sistema partitico(3).
Secondo Kircheimer il partito politico — nelle società occidentali — ha subìto un processo involutivo, per cui va cessando la sua funzione di «mediazione» tra le istituzioni e la società civile, di «integrazione» delle masse nello sviluppo in- dustriale, per divenire, secondo la definizione data dal Neumann, un «catch all party», il partito che acchiappa e ghermisce ogni cosa; come lo definiva il Far- neti, il «partito pigliatutto» (4). Il terreno di sviluppo di questo nuovo tipo di partito appare ben visibile nella estensione del Welfare State, con il consequen- ziale ampliamento delle funzioni pubbliche, quelle centrali e quelle periferiche. Accanto ad esse, assistiamo alla costante crescita della «mano pubblica» nel- l’economia, nei settori dell’energia e dell’informazione. I partiti vanno affer- mando sempre di più la loro presenza in ogni campo dove si estende l’attività dei poteri pubblici. Le esperienze nei vari paesi occidentali risultano diverse, ma la tendenza è omogenea. In Italia, per ragioni storiche anche precedenti alla unità del paese, ma anche per le tendenze poste in essere nei decenni più re- centi, abbiamo certamente un grado molto elevato di presenza pubblica in mol- ti settori della vita economica e sociale, e attraverso di essa, di presenza e di penetrazione delle forze politiche. Un esame attento ed approfondito del «caso italiano», per quanto riguarda questi aspetti, è stato condotto da Arturo Gi-smondi, che ne ha fatto oggetto di inchieste e di analisi nei suoi scritti (5).
  All’estensione dello Stato e del parastato fa riscontro, all’interno di essi, la cancellazione di ogni possibile partecipazione e controllo reale da parte degli associati. Nei partiti, si registra una tendenza all’indebolimento della vita de-mocratica interna, che si riduce spesso a forme rituali, a volte persino acclama- torie.
   Nel modello del «partito pigliatutto» le oligarchie dei gruppi dirigenti si tra- sformano in oligarchie depoliticizzate, attente pressoché esclusivamente o, co- munque, prioritariamente, a realizzare interessi di puro potere.
   Accanto alle oligarchie «centrali», che prolificano ed operano a livello «nazio- nale», trovano spazio per la loro crescita le oligarchie «locali», che lasciano via libera al centro, in cambio del laissez faire in periferia. Infatti, il modello di Kir- cheimer e Neumann indica un punto decisivo di questa mutazione nello svi- luppo del ‘localismo’. Considerazioni analoghe svolge Giovanni Sartori e, con lui, anche Luciano Pellicani (6). Il ‘localismo’ risulta essenziale a questo siste- ma perché crea in concreto le situazioni di necessaria compensazione tra il cen- tro e le periferie.
   Ne derivano due conseguenze di rilievo nientaffatto trascurabile. La prima consiste nel fatto che il «catch all party» guarda sempre di più all’elettorato per ‘massimizzare’ i consensi in base ai quali avviene la ‘ripartizione’ del potere nelle istituzioni o negli altri centri di influenza; oppure s’avvale di particolari rendite di posizione in quelle circostanze eccezionali, di ‘emergenza’, e in quel- le situazioni di anomalia dei sistemi politici che determinano un accrescimento dell’ ‘utilità marginale’ di singole o più formazioni politiche (come è avvenuto nel caso tedesco, per il Partito Liberale in questo paese; e come è avvenuto per i partiti italiani in governi di coalizione).
   La seconda conseguenza è interna agli stessi partiti, poiché viene mutando il rapporto tra il partito ed i suoi iscritti: l’adesione diviene soprattutto rapporto di ‘scambio’, ricalcando il modello medievale della ‘commendatio’, proprio nei termini descritti da Pirenne (7), cioè un’adesione che avviene in cambio non di uno o più vantaggi episodici, bensì di una protezione permanente al singolo, al- la sua famiglia, al suo gruppo. Il numero delle adesioni al partito, cioè il nume- ro delle tessere assume le funzioni di quotazione nella suddivisione interna del potere e dei suoi vantaggi, così come il numero dei voti all’esterno del partito stesso. La tessera diviene un ‘certificato bollato’, una partecipazione azionaria, una quota sociale.
   Si modifica la natura stessa del tesseramento che era originariamente lo stru- mento che permetteva al cittadino di avere diritto a partecipare alla vita del partito, e attraverso questa, alla vita politica nazionale. Essa perde la sua fun- zione democratica reale, e conseguentemente anche il suo significato simboli- co, rappresentativo dei valori di una scelta ideale, politica, financo di tipo mo- rale.
   Nel sistema politico italiano questo processo di mutazione appare partico- larmente illuminante.
   Prendere la tessera di un partito, prima del fascismo, era un atto di fede po- litica, di coraggio individuale, di impegno di battaglia sociale. Ciò spiega perché molti operai, contadini, artigiani, impiegati, intellettuali del PSI, del PCI, del Partito Popolare, di quello Repubblicano, hanno conservato la tessera, con gra-ve rischio personale, nei lunghi anni del regime fascista, nascondendola, ma non distruggendola.
   Per il fascismo, la tessera assunse una funzione diversa: da atto di fede, nella fase del fascismo-movimento, si tramutò in qualcosa del tutto diversa nel fa- scismo-regime. Assunse una funzione opposta a quella originale: divenne l’atto di riconoscimento da parte del regime dello statuto di fedeltà dei cittadini verso il regime stesso, da cui derivava addirittura la possibilità di esercitare certi di- ritti, che venivano invece negati a chi non la possedeva, come le iscrizioni agli albi professionali, le assunzioni nei pubblici impieghi, ecc.
   Nel postfascismo, il tesseramento riprese la sua funzione originaria, almeno, nei primi due decenni, tanto da comportare, per gli aderenti ai partiti di sinistra, o a quelli del MSI, di subire forme di discriminazione anche pesanti. Ma negli ultimi due decenni, con l’affermarsi del modello del partito «pigliatutto», an- ch’essa ha visto modificarsi la sua natura.
   Per tale ragione, il problema del tesseramento è divenuto oggi un problema di tutti i partiti, e ne accompagna il dibattito interno ed esterno specie in prossi- mità dei riti congressuali, che sovente assumono il significato dei veri e propri conteggi delle quote di spettanza ai vari gruppi e correnti.
   Tali mutamenti appaiono rilevanti nel condurre verso una crisi del ruolo del partito moderno. Se il partito rinuncia, almeno di fatto, alla sua funzione, per la quale è sorto, di mediazione tra la società civile e le istituzioni; alla sua funzio- ne tipica di organizzazione della partecipazione dei cittadini alla vita politica del proprio paese; se esso contribuisce alla gestione delle istituzioni pubbliche di vario livello soltanto in nome e nell’interesse delle sue oligarchie, o di quelle di altra natura, con esse alleate, a lungo andare vede deperire le motivazioni che l’hanno prodotto e che hanno determinato la sua funzione storica.
   È venuta sostanzialmente a mancare la condizione su cui si fonda ogni co- munità politica concreta: cioè la congiunzione tra la sfera della convinzione e la sfera degli interessi in ciascuno dei partecipanti, la necessità della responsa- bilizzazione di tutti verso tutti gli altri. E venuta a mancare la condizione fon- damentale della costituzione e della vita di ogni sodalizio politico. E, con essa, quella che Aldo Capitini definiva il «potere di tutti», in contrapposizione al po- tere di pochi sugli altri: un potere che non annulla la diversità delle funzioni ed anche gli ordinamenti gerarchici liberamente scelti, ma li vuole ispirati a quel- l’etica della non sopraffazione, che non solo tollera, ma ricerca e stimola la col- laborazione di tutti i membri del sodalizio e ne garantisce i diritti di espressione e di critica.
   Harold L. Lasswell ha osservato che nei sistemi democratici, al di là delle istituzioni formali, si vanno imponendo sempre di più forme di potere reale diverse da quelle (8). Queste forme di «governo invisibile», presenti a tutti i li- velli della vita politica, locale e nazionale; come nelle attività burocratiche, del- le funzioni giudiziarie e repressive; come dell’informazione stampata e televi- siva; come dei settori militari e dei rapporti internazionali, finiscono per assu- mere le decisioni più rilevanti. A volte si tratta di veri e propri poteri occulti; ma, nella maggior parte dei casi, la definizione di «governo invisibile»  riguarda l’intreccio tra segmenti di poteri di varia natura, risultanti dalla logica artico- lazione delle «società complesse», fortemente corporativizzate, che, pur diffe- renziandosi, tendono poi a convergere per assumere le decisioni di comune in- teresse. È tutt’altro che raro, a questo proposito, imbattersi pressoché quoti- dianamente in ‘convergenze’, più o meno note, tra ‘corpi separati’, potentati economici, settori della stampa, dei partiti, del sistema bancario. Intreccio tan-to più fitto, in quanto sempre di più i settori affaristici hanno bisogno del po- tere pubblico, ed in quanto le forze politiche si occupano — impropriamente — di affari per autofinanziarsi o per potenziare la propria presenza nella vita collettiva.
   Non è raro, altresì, che a livello dei poteri locali si avverta o venga esplicita- mente riconosciuta la presenza di un governo «superpartitico» composto da va- ri esponenti di alcune forze politiche generalmente più influenti nel luogo, che assumono insieme le decisioni di ordine amministrativo, ed anche di altra na- tura.
   Il complesso, e la somma, di tutte queste situazioni, a livello centrale e a li- vello periferico, rappresenta un fenomeno concreto di svuotamento tendenziale delle sedi formali di decisione politica ed amministrativa, riducendone forte- mente quel grado di trasparenza che, in un qualche modo, dovrebbe costituire una condizione di ‘visibilità’ del sistema decisionale, garanzia indispensabile per una vita democratica della collettività. Ciò ha portato Norberto Bobbio ad osservare malinconicamente come la trasparenza e la visibilità rappresentino ancor oggi due promesse non mantenute della vita democratica.
   Un tale fenomeno, accertabile in tutte le democrazie occidentali, (i regimi to- talitari, ovviamente, sono in via di principio la negazione di ogni trasparenza e di ogni visibilità), porta a cancellare, per dirla sempre con il Lasswell, il concet-to per cui «il potere politico si definisce come il grado della partecipazione alla presa ed alla esecuzione di decisioni importanti in una comunità politicamente organizzata» (9).
   Invece, alle decisioni importanti — prese in realtà al di fuori delle decisioni formalizzate — partecipano solo ristrette oligarchie, anche al di là di distinzio-ni di carattere sociale e politico.
   Il modello di «partito pigliatutto», nelle sue fattispecie concrete, sempre più ricorrenti, favorisce ed incoraggia questo fenomeno. Spesso sono gli interessi esterni che premono o s’impadroniscono dello strumento partito per «occupa- re» la società e le istituzioni. Le stesse istituzioni, gestite dai partiti, finiscono per rispondere alla volontà di questi ‘governi invisibili’ che tali risultano essere, ed in tal modo vengono denominati non perché non siano conosciuti nelle per- sone dei loro titolari (i cui nomi sono spesso sulla bocca di tutti) ma perché per la natura delle loro azioni decisionali si pongono al di fuori ed in contraddizio- ne con ogni regola di ‘visibilità’ e di ‘trasparenza’.
   Oltre alla ricordata affermazione di Bobbio (10), va ricordato a questo pro- posito quanto ha scritto Danilo Zolo, secondo cui «alla legittimità democratica si va sostituendo la illegittimità di pratiche potestative occulte».
   Assistiamo così ad un processo di stravolgimento delle regole formali della democrazia (in cui le regole formali del gioco politico sono di per sé sostanzia- li). Si viene così a creare una situazione di tendenziale fuoriuscita dalla demo- crazia, che due illustri sociologi della politica, Bachrach e Baratz, con il titolo di un loro ormai celebre saggio, Two facies of power, Le due faccie del potere (11).
   Secondo questi due studiosi, il potere tende a presentarsi con due facce, con- dizionatesi ricorsivamente: una che si esprime con le forme ritualizzate del di- ritto e delle regole del gioco democratico; l’altra nella quale il potere si esprime come pura forza, come dominio non sottoposto a limiti giuridici e neppure a re- gole civili.
   È chiaro che alla lunga, nel gioco dei condizionamenti reciproci tra queste due facce del potere, non separate, ma sempre di più a malapena distinte, tende a prevalere (per una specie di traslazione della «legge di Gresham» per cui la moneta cattiva prevale sulla moneta buona) la forza del puro potere incontrol- lato e non visibile.
   Come appare inevitabile, è il mondo del puro potere, della forza, dell’arbitrio, non sottoposto ad alcun limite reale, che tende a prevalere e a trasbordare nel mondo delle istituzioni formali, delle regole e delle procedure ritualizzate; e non viceversa.
   Attraverso questo processo, i partiti tendono a perdere (come abbiamo già avvertito) la loro funzione originale che li faceva «enti intermedi», secondo la classica definizione del Montesquieu, tra istituzioni e cittadini, quali rappresen- tanti dei cittadini nei confronti delle istituzioni, e nelle istituzioni.
   Il partito politico viene ad identificarsi con le istituzioni stesse, perché di esse è portato a fare gli strumenti per l’esercizio di quella volontà di potere incon-trollata e sottratta ad ogni trasparenza, ad affetto della sua soggezione al potere degli interessi che lo pervadono, e trasmettono ad esso tutta la opacità di cui si circonda, per sua natura, il dominio del ‘governo invisibile’.
   Viene ad essere rovesciato, per conseguenza, il significato della formula giu- ridica coniata dal Rescigno (12) che vede nel partito «un ente necessario allo Stato»: in realtà è lo Stato che diviene «un Ente necessario al partito» per la sua sopravvivenza e per l’espansione della sua sfera di influenza, in quanto è stato delegittimato di una reale rappresentatività politica, ed affinché possa gestire ai propri fini particolari gli strumenti di potere fornitigli dalle istituzioni pubbliche e parapubbliche.
   Si tratta di un processo che si è andato inevitabilmente espandendo con la diffusa articolazione delle istituzioni a livello regionale e locale. Il decentra- mento ha finito per ampliare massicciamente le occasioni concrete dell’iden- tificazione tra i partiti e le istituzioni dando luogo a quei fenomeni di «occupa- zione del potere» così efficacemente descritti ed analizzati dal Gismondi, per quel che riguarda il «caso italiano».
   Il processo di debilitazione delle regole del gioco, e delle istituzioni formali investe anche e soprattutto i partiti stessi, che vanno considerati sempre di più, per l’appunto, quali partito-istituzione e sempre di meno nella loro primitiva forma di partito-movimento.
   Tralasciando di esaminare gli effetti devastanti che nel generale equilibrio della società democratica può produrre l’esaurirsi della funzione dei partiti co- me fonti di mobilitazione ideale e di iniziative sociali e civili, non si può non rilevare la pericolosità del vuoto che un fenomeno di tal genere viene a creare nel complesso della vita collettiva, vuoto che viene ad essere occupato da altre tendenze ed altri movimenti di natura apertamente corporativa o antidemocra- tica.
   Le stesse tendenze al «presidenzialismo», che appaiono emergenti nella vita dei partiti occidentali, ed anche in Italia, giustificate da impropri ricorsi al mo- dello della «dittatura commissaria» coniata da Carl Schmitt, appaiono inefficaci a ristabilire una corretta identità politica nelle formazioni partitiche, cancellata dal processo di mutazione che conduce alla genesi del «catch all party».
   All’opposto, le tendenze «presidenzialistiche» mostrano, in generale, che, là dove si affermano, non vengono tutelati gli interessi politici di quegli iscritti che non intendono praticare il sistema della «tessera di scambio», cioè che sono interessati alla vita del partito nel senso della partecipazione politica. Essi ve- dono restringersi gli spazi di democrazia interna, annullate le prerogative statu- tarie, mortificate le rappresentatività politiche reali.
   Si produce una situazione contrassegnata da una vera e propria espropria- zione dei diritti democratici, congiunto con l’imperio pressoché assoluto nella designazione degli incarichi di partito e degli stessi incarichi istituzionali. Uno stato di cose che sembra reclamare ormai una regolazione giuridica della vita dei partiti, che pur consentendo, quando lo si decida liberamente, uno «status»  presidenzialistico, lo circondi di quelle garanzie normative necessarie a far sì che i partiti non rappresentino una «zona franca» della vita democratica nella sua complessità istituzionale.
   Il fatto stesso che i partiti vadano acquisendo un ruolo sempre più esteso e ri- levante nella vita delle istituzioni, conduce inevitabilmente ad accertarne in se- de teorica un profilo decisamente pubblicistico; da cui consegue, sul terno della prassi legislativa, l’esigenza di approntare una normativa regolatrice della loro vita e della loro attività tale da impedire che queste si tramutino in una perma- nente ed organica modificazione della «costituzione materiale» in senso netta- mente oligarchico ed autoritario.
   Anche in Italia il problema sembra porsi in termini espliciti. Che la sua solu- zione sia ormai più che matura, lo conferma (dopo decenni di discussione in se- de dottrinaria ed in sede politica) l’autorevole presa di posizione della Com-missione Bozzi, che, tra le non molte riforme istituzionali che essa propone, ha suggerito una riformulazione dell’art.49 della Costituzione.
   La proposta della Commissione Bozzi, approvata all’unanimità dai suoi com- ponenti rappresentanti di ogni settore politico, costituisce un notevole passo in avanti in direzione di una regolazione giuridica dei partiti (13). Essa supera al- meno gli ostacoli teorici al riconoscimento dell’identità pubblicistica dei partiti ed alla loro regolazione giuridica, che, dalla Costituente in poi, erano stati frap- posti da notevoli correnti di pensiero e da parti politiche, tra cui quella comu- nista.
   L’interesse di tutti è infatti quello di potenziare e riattivare, nella misura del possibile, la democrazia dei partiti. I quali, se funzionano secondo princìpi di trasparenza, con le dovute garanzie per gli associati ed anche per tutti i cittadi- ni, sono un fattore di sviluppo democratico della società. All’opposto, nono- stante la loro onnipotenza, la loro invadenza, la loro forza di occupazione del potere, rappresenteranno un elemento di fragilità e di crisi, per sé stessi e per le istituzioni.

 

 



dicembre 1996


                                                           
 

 

 

 

 

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Note

 

 

* Qualche anno fa, molto prima di Tangentopoli, presentai ad un convegno questa relazio- ne che, ad oggi, non mi sembra ancora del tutto scaduta.

 

1. Massimo Salvadori: La logica della partitocrazia  in Micromega n. 2, 1986.

 

2. Arturo Gismondi: Alle soglie del potere, Sugarco Editore, 1986.


3. O. Kircheimer: Struttura di partito e democrazia di massa, in Il partito di massa.  Teoria e pratica, F. Angeli Editore, 1975.


4. Paolo Farneti: Il sistema dei partiti in Italia, Il Mulino, 1980.

 

5. Si veda di quest’autore l’inchiesta sui potere dei partiti apparsa a puntate sul Messaggero nella primavera del 1986.


6. in Mondoperaio n. 8/9 del 1986.


7. H. Pirenne: Storia Economica e Sociale del Medioevo, Garzanti.


8. H.L. Lasswell: Potere e Società, Milano, 1969.


9. Ibidem.


10. Norberto Bobbio: Il futuro della democrazia, Einaudi, 1984.


11. P. Bachrach, M.S. Baratz: Power and Poverty, Trad. italiana Liviana, 1986.


12. P. Rescigno: Corso di Diritto Pubblico, Zanichelli, 1979.

 

13. Atti della Commissione Bozzi, pagg. 18-19.