E' ancora vivo il socialismo?
da
L'Asino, 1902
● E' da ritenersi
esaurita la sua funzione storica?
● Dopo la caduta
dei regimi dell'Europa dell'est, invece del successo del
del socialismo democratico se ne registra la crisi.
Crisi del socialismo
o crisi dei socialisti?
● Si va anche in
Europa verso una sinistra de-ideologizzata come in Ame-
rica? Quale futuro per i
partiti socialisti o che al socialismo si richiama-
mano nella
sinistra italiana ed europea?
gennaio 1993
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Antonio Landolfi
storico, Università LUISS
di Roma; già senatore
La
ricerca socialista di una propria idèntità per il
presente e per il futu- ro deve affrontare due problemi
che sono già oggi presenti in modo pro- rompente nelle
società attuali e che lo saranno soprattutto nei
prossimi decenni; si tratta di due paradigmi abbinati:
il problema dell’immigrazione e quello del Terzo Mondo.
La debolezza, il sottosviluppo del Terzo Mondo immette
continuamente nel mondo più evoluto, nel mondo
industriale, quote di popolazione crescente. Ba- sti
pensare che i paesi europei rivieraschi del
Mediterraneo, compresa l’Alba- nia, entro il 2025 avranno
un aumento complessivo di circa sedici milioni nella
popolazione; nello stesso periodo di tempo, la
popolazione complessiva degli stati rivieraschi del sud
del Mediterraneo, Africa settentrionale e Medio Orien- te,
aumenterà di centosessanta milioni! Già, questo dato,
che i fatti poi correg- geranno in difetto o in eccesso,
conferisce una misura del problema, insieme a quello
delle formazioni e della possibilità di esistenza di
società multirazziali, multietniche, composite, in
Europa e non soltanto in Europa.
Sarà questo uno dei
problemi a cui il socialismo dovrà dare una risposta nel
corso dei prossimi decenni;
dipenderà dalla risposta che daremo a questi pro- blemi
l’evoluzione dell’andamento delle società nazionali nel
futuro prossimo.
Un altro paradigma che mi sembra fondamentale in questa
ricerca di risposte ai tanti problemi
del presente e del domani da parte del movimento
socialista è quello della rappresentanza sociale: c’è il
rifiuto del bipolarismo sociale (bor- ghesia capitalistica
e classe operaia), che
non corrisponde alla crescita della so- cietà, ed è banale
come banale però è anche la considerazione che la
classe o- peraia, e più in generale la classe del lavoro
dipendente, non esista più.
È evidente che il problema della rappresentanza sociale
per queste forze del socialismo è quello di mantenere la
rappresentanza più forte possibile nel mon- do dei
lavoratori dell’industria, e nello stesso tempo, però,
aprirsi, non in modo strumentale, ai ceti sociali che
sono nati nell’evoluzione del mondo attuale: al settore terziario cosiddetto avanzato, ai tecnici, agli intellettuali, ai
ricercatori, nel mondo della scienza, della sanità,
della cultura, e anche a certi settori del mondo
imprenditoriale che si vogliono associare a questo
processo, una volta che sia superata la cultura vetero-socialista dello statalismo,
dell’espropriazio- ne,
ecc... Ci sarà un interesse conservatore a non aderire a
questi sistemi di va- lori, ma non ci può essere un’interesse pregiudiziale nei confronti del mondo del socialismo
democratico. È chiaro che questa forma di rappresentanza
so- ciale comporta anche il riconoscimento, che già di
fatto avviene, della com- plessità e della pluralità del
sistema sociale, che non può essere in alcun modo
depressa né oscurata, né a vantaggio di alcuni, né a
favore di altri.
Questo pluralismo riguarda anche i fenomeni religiosi:
un canale di comuni- cazione si può aprire sempre di più
fra il mondo del cristianesimo e il mondo del socialismo,
almeno in Europa.
In effetti, se oggi esaminiamo le proposte della
dottrina sociale della Chiesa, nelle varie elaborazioni
delle
encicliche, e di altri documenti, riscontriamo dei punti
impressionanti di contatto fra la impostazione nuova
della dottrina socia- le della Chiesa cattolica e il
socialismo democratico.
La chiesa ha poi una forza associativa che si fonda su
una capacità di auto- mobilitazione volontaria che non è
qualcosa che nasce da princìpi di meccanica sociale
determinati da poteri spirituali, ma che insorge da una
cultura che è ba- sata su un concetto di solidarietà che è
anche la scoperta seppur tardiva del- l’importanza
dell’individuo, della felicità personale, dell’
importanza dei diritti.
Il principio di solidarietà resta una delle componenti
essenziali di una risposta socialista ai problemi
dell’oggi e del domani.
Solidarietà che non significa con- trabbandare una forma,
sia pure derivata, di egualitarismo assoluto, che com- porta il rifiuto del dinamismo della società, di una
concorrenza basata sul me- rito e quindi anche sulla
responsabilità, ecc.
La solidarietà è il principio fonda- mentale da cui è nato
il movimento socialista, e significa soprattutto
rappresen- tanza e difesa dei ceti più deboli, che vengono
schiacciati dai meccanismi so- ciali, e significa
espressione dell’esigenza di un livello di uguaglianza
possibile maggiore rispetto alla società attuale e alla
possibile società futura.
Ciò signifi- ca, innanzitutto, minore disuguaglianza
sociale, etnica, culturale, politica lad- dove si esprime
una situazione che, al di là delle astrazioni
concettuali, è pre- sente in ogni parte del mondo (la
contrapposizione Nord-Sud, il Terzo Mondo, il
sottosviluppo, le nuove e le vecchie povertà ecc.).
Una situazione in cui il movimento del socialismo
democratico e liberale non fa i conti con un astratto
principio di disuguaglianza (per i teorici della destra
questo determina una visione gerarchica dell’esistenza,
per cui la disuguaglian- za è l’elemento distintivo
dell’aristocrazia politica della destra), ma con le
disu- guaglianze reali, espressione di un processo di
dinamica sociale a livello anche internazionale, con le
quali una concezione della solidarietà deve dare
risposte correttive e propositive in termini reali e
possibili.
Una cosa abbiamo appreso: le disuguaglianze non nascono
tutte come voleva l’analisi marxista dal capita- lismo; le
abbiamo viste nascere e prosperare nel mondo del
socialismo reale, dove il capitalismo
non c’era. Quindi l’identità che ha dominato
culturalmente il discorso della sinistra nei decenni
passati fra disuguaglianza e capitalismo è un’identità
dimostratasi non vera, o soltanto parzialmente vera.
Il capitalismo, nel suo nascere, ha prodotto
disuguaglianze che sono state in parte combattute, in
parte corrette, in parte modificate; oggi ci sono altre
disu- guaglianze, alcune nascono dal sistema economico
(basti pensare la classifica dei redditi o
l’appropriazione della ricchezza da parte di gruppi
ristretti); altre sono nate da lotte di sopraffazione
ideologica, religiosa, di pensiero; altre sono nate da
disparità razziali, altre nel contesto dell’esperienza statalistica e
collet- tivistica. La capacità costruttiva,
propositiva, possibilistica di un movimento socialista
nella sua espressione teorica e politico-concreta di
combattere queste disuguaglianze è certamente il comune
denominatore ancora valido per una specificità
socialista dell’economia.
La capacità di un riformismo socialista di dare risposte
ai problemi che do- mineranno le scene nazionali, europea,
mondiale a cominciare, appunto, dal Terzo Mondo, è in
concreto la risposta possibile del socialismo al futuro.
A questi problemi, a queste questioni, da queste
risposte dipenderà poi se ci sarà il futuro del
socialismo.
Sappiamo però che c’è già presente, che non è poca co- sa,
che forse conosciamo poco, nel quale vi sono i germi di
un rinnovamento profondo, un adeguamento alle situazioni
nuove, agli orizzonti nuovi della so- cietà europea e
della società internazionale; questo ci porta a dire che
il socia- lismo democratico e liberale oggi,
contrariamente a quello che accade per il co- munismo, ha
delle buone carte da giocare nei prossimi decenni, a
cominciare da questo che conclude il nostro secolo.
gennaio 1993
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Gaetano Arfè
storico, Università
di Firenze; già senatore
Il
socialismo non è morto, è mal vivo e le ragioni di
fondo credo stia- no nelle trasformazioni eversive
che hanno sconvolto le strutture della società — e
con esse cultura, costumi, istituzioni — nelle
regioni del mondo economicamente più avanzato.
Il socialismo non è stato in grado,
nonché di prevedere, di intendere tempe-
stivamente gli effetti dei fenomeni provocati e
neanche ancora di intenderne le tendenziali linee
di sviluppo.
Il neo-riformismo — che nulla ha a
che vedere con quello «storico» — è l’espressione
di questa impotenza. Si potrebbe dire che è la
vendetta di Marx su chi lo ha mandato in soffitta
e addirittura lo ha chiamato correo dei crimini
commessi in suo nome. Bisogna, però, a questo
punto aggiungere che quanti festeggiano la morte
del socialismo non sono meglio attrezzati. Essi
sono i pro- motori ciechi di un processo di
imbarbarimento della civiltà che ha già rude-
mente investito, con infinite varianti tutto il
pianeta, e che, se incontrato, met- terà in
pericolo la sopravvivenza stessa dell'umanità. La
loro ideologia, fluida ma soffocante, è quella
sintetizzata nella formula della fine delle
ideologie. Una sinistra che l’accettasse
cesserebbe di essere tale.
Mi è motivo di fiducia il vedere che dovunque si
accendono, sempre più fre-quenti e sempre più vivi
focolai di resistenza dove si scoprono, o si
riscoprono, i valori umani che contraddistinsero
un tempo l’ethos politico del socialismo.
La corsa col tempo si è aperta. Si tratta di
vedere se il processo di ricomposi- zione della
sinistra interno a questi valori giunga a uno
sbocco prima che i gua-sti diventino insanabili.
Crederci è già contribuire a che questo avvenga.
gennaio 1993
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Luciano Pellicani
sociologo,
Università Università LUISS di Roma;
direttore
di «Mondo Operaio»
1 Alla domanda se il
socialismo sia ancora vivo, penso si possa e si
debba rispondere in termini positivi, vivo
senz’altro, se per socialismo si intende una
esigenza morale, e precisamente l’esigenza di
alimentare, traducendoli, in comportamenti e
istituzioni, valori come la solidarietà sociale,
la giustizia distributiva, la tutela dei deboli.
Ed è vivo soprattutto se si tengono
presenti i contenuti della cultura neoli- berale
o, più, precisamente, neoliberista. In tale
cultura, il valore «giustizia so- ciale» non ha
posto alcuno.
Si afferma con la massima
franchezza — al riguardo la filosofia di Hayek è
i- nequivocabile — che occorre ritornare al
laissez faire, al mercato autoregolato, allo
Stato minimo, insomma a quel sistema economico
sociale che il movimen- to socialista,
attraverso il compromesso fra Stato e mercato,
ha reso un fossile storico.Contro una
prospettiva del genere il socialismo continua ad
avere la sua ragion d’essere. La sua funzione
storica non è affatto esaurita. Sempre, natu-
ralmente, che si voglia prendere sul serio il
valore democrazia.
2 Tuttavia in alcuni paesi
europei l’elettorato volge le spalle ai
socialisti. Ciò è vero, ma non
necessariamente la cosa indica una crisi
dell’idea socialista. Conviene, infatti,
distinguere il socialismo dei partiti
socialisti. Il fatto che que- sti ultimi in
Francia, in Italia e in Spagna siano sotto
accusa non ha molto a che vedere con la cultura
e i valori del socialismo, bensì con i
comportamenti di tali partiti. Il loro tasso di
corruzione è risultato tale da indurre gli
elettori a punirli duramente.
Ritengo che sia altamente
contestabile la tesi di quanti sostengono che la
ca- duta del Muro di Berlino ha avuto
conseguenze negative sulla socialdemocra- zia.
Nulla autorizza a pensare che esista un nesso
causale fra le sconfitte elet- torali dei
socialisti italiani e francesi e la bancarotta
planetaria del comunismo. Il che, poi, non
significa che la socialdemocrazia goda di ottima
salute. Signifi- ca che le difficoltà della
socialdemocrazia sono in gran parte inerenti
alla cultu- ra socialdemocratica. Questa da
oltre dieci anni ha cessato di essere creativa.
Non è stato in grado, finora, di rinnovare i
suoi contenuti e di rispondere in termini
operativi alle trasformazioni in atto nelle
società post-industriali. L’ulti-ma stagione
creativa della cultura socialdemocratica è stata
quella degli anni settanta, durante i quali fu
lanciata l’idea dell’auto-gestione quale nuova
fron- tiera del socialismo. Un’idea che ha
vissuto l’ espace d’un matin e che non ha
la- sciato traccia dietro di sé, privando così i
partiti dell’Internazionale Socialista di un
progetto di traformazione degno di questo nome.
3 Non, si può escludere che
l’Europa si «americanizzi» e che la sua sinistra
si de-ideologizzi fino al punto da perdere tutti
i connotati che, storicamente par- lando, hanno
costituito la sua identità politico-culturale.
E’ una prospettiva, questa, che potrebbe
materializzarsi prima che il XX secolo si
chiuda.
Ma potrebbe anche accadere che ciò
che oggi appare una tendenza irresi- stibile,
risulti essere una fase puramente congiunturale
e che la sinistra ritrovi la sua creatività ed
esca dalla crisi nella quale oggi si dibatte.
Una cosa sembra certa, ed è che i
prossimi anni saranno decisivi per l’idea so-
cialista. O questa riuscirà a rinnovarsi e a
produrre modelli operativi che ridia- no ai
partiti dell’Internazionale il loro tradizionale
ruolo di soggetti del cam-biamento e di agenti
dello sviluppo democratico oppure la predizione
di Ralf Dahrendorf troverà la sua
corroborazione empirica
Ma questa è una storia tutta da
scrivere.
gennaio 1993
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Giorgio Benvenuto
già segretario del PSI,
appena dimessosi dopo cento giorni
dall'elezione;
già segretario generale del
sindacato UIL
Suscita rabbia e tristezza vedere
come un partito di grandi tradizioni sia
diventato una sorta di proprietà privata di
gruppi dirigenti ormai privi di credibilità e di
legittimità politica; ma non privi, purtroppo,
della capacità — questa sì micidiale — di
svuotarlo della sua stessa base. E di
distruggere, giorno dopo giorno, il suo
inestimabile patrimonio di lotte, di im- pegno
civile, di conquiste sociali.
Temo che non ci sia dato il tempo e lo
spazio politico per evitare che la fine del
vecchio sistema trascini con sé gloriosi marchi
di fabbrica. Qualcuno ha creduto e crede di
poter lavorare al salvataggio. Qualcun altro ne
dispera e ri- volge ad altro il suo sguardo. E’
possibile che tra noi ci siano opinioni e sensi-
bilità diverse sull’opportunità di continuare a
dedicare una parte almeno del nostro impegno al
rinnovamento della vecchia forma partito. Non è
questo il momento di affrontare come prioritario
questo problema proprio mentre sen- tiamo di
rappresentare le speranze di tanti militanti del
Psi onesti e pronti a lot- tare per ideali di
giustizia e di progresso. Non ci divideremo
certo se decidere- mo di ricercare una qualità
nuova dell’iniziativa politica e, se invece di
andarci a chiudere nei Palazzi del potere,
riusciremo a far rivivere in noi e tra la gente
la passione per le idee e per gli ideali di
equità sociale e di giustizia politica di cui ci
siamo fin qui alimentati.
L’importante è non farsi
risucchiare nelle vecchie logiche, non
contrattare nulla con chi non rappresenta se
stesso. L’importante è guardare avanti, è oc-
cuparsi dei problemi della gente, è parlare il
linguaggio dei fatti, è concepire la politica
come spirito di servizio e non come attività
tesa esclusivamente all’oc- cupazione del
potere. E di quale potere poi? Del peggiore. Di
quello che ha portato certi partiti ad
organizzarsi nei comitati di affari e a mettere
su vere e proprie reti di controllo
sull’economia pubblica. Controllo sistematico e
spieta- to che non risparmiava nulla e nessuno.
Ci vorranno molti anni prima che i
partiti potranno scrollarsi di dosso questa
immagine terribile. E potranno scrollarsela se i
gruppi dirigenti che portano tut- ta intera la
responsabilità di questa generazione verranno
spazzati via. La no- stra esperienza dimostra,
oltre ogni ragionevole dubbio, che non ci si può
met- tere al tavolo con essi neppure per un
momento. Questi uomini e queste donne del potere
hanno perso il senso della realtà. La loro
ostinazione nel rimanere aggrappati ad un potere
illusorio è davvero degna di miglior causa.Sicuramente
non della causa del socialismo liberale e
democratico per la quale si sono bat- tute
generazioni di uomini liberi. Sicuramente non
della causa libertaria nella quale ci siamo
identificati in tante lotte per il progetto
civile. Non della causa egualitaria alla quale
abbiamo legato e legheremo il nostro impegno nel
mondo del lavoro, nel mondo della scuola, tra i
pensionati, tra le donne e tra gli uomini che
ancora osano credere nel proprio diritto a fare
politica in prima persona.
Ci sono tre aree di vita e di
impegno civile alle quali dobbiamo rivolgere in
primo luogo il nostro sguardo:
- Primo, il mondo del lavoro. Un mondo nel
quale batte il cuore pulsante della società
civile e dal quale dobbiamo trarre le domande
fondamentali di natura sociale ed economica alle
quali deve rispondere il programma di governo di
uno schieramento progressista. In questo senso
noi vediamo nell’Alleanza tra i cittadini un
movimento di suggestione fabiana e laburista che
sappia dare una proiezione di progresso civile
ai valori centrali del mondo del lavoro. A
queste proiezioni ha legato le proprie sorti il
movimento sindacale italiano e noi dob- biamo
aiutarlo a rinnovarsi profondamente e a
liberarsi definitivamente dal condizionamento, a
volte paralizzante, delle vecchie appartenenze
politiche;
- Secondo, l’area della solidarietà
sociale che parte dal mondo del lavoro, ma non
può limitarsi ad esso. Qui dobbiamo costruire la
cultura del servizio al cit- tadino. Qui
l’impegno politico deve trovare l’espressione
più compiuta. Si trat- ta di ingaggiare una
battaglia senza quartiere contro le ingiustizie
ed i soprusi dello Stato degenerato e mal
governato che si rivolgono in primo luogo
proprio contro i cittadini che dovrebbe servire.
Su questo terreno la battaglia per il rin-
novamento istituzionale deve trovare le sue
concrete rispondenze nella vita di tutti i
giorni. Qui la solidarietà deve trovare pratica
quotidiana. Qui la politica diventa un servizio
al cittadino.
- Terzo, l’area della difesa
dell’equilibrio ambientale. Un’area popolata da
tanti movimenti e da tante energie che non
sempre riesce a trovare le sintesi politi- che
necessarie. Noi non ci poniamo come referenti
politici né per poco né per tanto. Noi vogliamo
essere compagni di viaggio dell’arcipelago verde
ed am- bientalista, portando in esso uno stimolo
ulteriore e necessario al raccordo con il mondo
del lavoro. Il grande terreno di incontro e,
speriamo, di sintesi politica è lo sviluppo
sostenibile ed una politica economica e sociale
con esso compati- bile. Lo sviluppo sostenibile
è l’unica moderna sfida ad un capitalismo finan-
ziario che ha saputo creare un consenso di massa
alle sue scelte speculative e alle devastanti
incursioni sul territorio. Non possiamo spezzare
i fili di questo consenso se i movimenti verdi
non troveranno terreni comuni di lotta, di
elabo- razione e di proposta con il mondo del
lavoro. L’obiettivo dello sviluppo soste- nibile
non può che essere il pilastro fondante di un
programma economico di una sinistra moderna.
Queste tre aree di impegno possono
e debbono diventare il fulcro di una vera
alleanza tra i cittadini per il lavoro e per i
diritti civili. Non sono certo le sole, ma sono
quelle che costruiscono le coordinate di una
politica di rinnovamento. Della quale noi ci
vogliamo mettere al servizio.
giugno 1993
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