Italia, non dimenticarti

di Mario Luzi

 

 


Schiacciata tra la corruzione e il furore dissociativo e sotto un nu- volone ciclonico di rabbia e di minacce, l’Italia si è dimenticata di se stessa e le ripugna perfino riconoscersi. La sua lunga e tribolata sto- ria, la passione dei suoi poeti e ideologi, i suoi emuli splendori che pareva il tempo e le vicende avessero trasformato in una compagine tenace e conscia, al di là delle mille faccette del prisma, sono invece misconosciuti, ri- chiamati in causa, rinnegati.
  Ciò che si riteneva il vivido pigmento di una unità non omologata è divenuto un furibondo motivo di contrapposizione.

L’Italia non ha una storia unitaria secondo l’autorità centripeta ed aggregatri- ce delle monarchie europee: ha, e ci pareva più affascinante, una unità tenden- ziale dinamica, cioè una dialettica unitaria, un problema unitario sempre vivo che ne costituiscono l’originalità. Ma dalla fierezza di questa condizione che e- ra molto diffusa siamo passati a denigrarla ed a esecrarla. Sono gli effetti del malgoverno. Entriamo idealmente – o di persona – perchè no? – nel palazzo di Siena e vediamone le devastazioni dipinte da Ambrogio Lorenzetti.

 

 

 

   Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del cattivo governo, affresco, 1338-40,

  Palazzo Pubblico, Siena

 

 

Non c’è niente nella storia di un’antica nazione colta che non abbia antefatti remoti e non sia stato sublimato tanto da contribuire al suo modo di essere Na- zione. Il patema che oggi soffriamo, sia pure gli uni contro gli altri, tutti contro tutti, è peculiarmente italiano, paradossalmente ci definisce come italiani. Re- sta solo da illuminare la cecità in cui avviene: prenderne coscienza ed assumer- lo.

Al contrario del fuggi fuggi e delle facili denigrazioni che si vedono e si leggo- no un po’ dovunque, è il momento di ricorrere alle riserve auree della nostra i- dentità, così diversa dalle altre, ed ai suoi grandi documenti di arte, di pensiero, di testimonianza. Il malgoverno può averle mal custodite; ma ci sono e valgono ad imporre rispetto per la terra e per la gente che le hanno generate, anche ai petulanti corvi ed ai sinistri sciacalli. Sono la nostra vera e unica ricchezza; a patto che ce ne investiamo consapevolmente e senza smargiassate, con un sen- so civico accresciuto dalla precarietà dell’altra ricchezza, quella che aveva illu- so molti e che è stata in ogni caso sprecata. Dovremmo, mi pare, e dovrebbero tanto più le nostre autorità, riconoscere i nostri superiori titoli; e una volta rico- nosciuti tirarli fuori e giocarli con la più onesta saggezza che si possa invocare.

Abbiamo solo faccendieri, speculatori, ricattatori? O c’è anche qualche perso- na in buona fede che sa il fatto suo e nostro? E si trova nei posti giusti, dove si crea e si promuove, essendo prima di tutto competente? Io spero ci sia, anche se ne abbiamo dovute vedere di tutti i colori: dispregio, incuria, miserabili mac- chinazioni ai danni del nostro buon nome. A molte soprintendenze, a molte di- rezioni generali e locali, degli esteri e degli interni, dovremmo chiedere il conto. Il malgoverno ha imperversato anche in questo campo ed ha compromesso la nostra serietà di fronte al mondo.

Alla riunione del Pen club tenuta a Torino in maggio furono denunziate co- ralmente le inverosimili pratiche degli Istituti di Cultura all’Estero, facendo, come accade, di ogni erba un fascio. E non era presente Giacomo Oreglia, fie- ro ed offeso atleta che non ha ammainato bandiera, con il suo annoso dossier stoccolmino fatto di accuse ai consoli ed ai proconsoli, i Bottai, e i Vattani e i loro antecessori, Ciarrapico, Romano, Borga che hanno – è questa la sua appas- sionata testimonianza – distrutto quanto di buono lui, la casa editrice Italica, la fondazione Lerici avevano costruito; e hanno degradato i rapporti con il mondo della cultura svedese. Lo ricorda il numero 9 di Millelibri, ora in edicola.

E’ proprio sulla grandezza non retorica della tradizione filosofica, artistica e letteraria e su quanto degnamente la continua e la innova nel presente che dob- biamo far leva, per riconoscerci, per farci riconoscere, sostenendo lo sguardo di qualunque ironico e sarcastico giudice si fissi perfidamente su di noi. Dobbia- mo sul nostro paese fargli cambiare il criterio ed il metro di giudizio, pur gri- dando vendetta per lo scempio politico ed amministrativo che ne abbiamo la- sciato fare. Dobbiamo esporre e valorizzare in piena convinzione gli argomenti che ci sono rimasti e non avvilirci per questo.
 

 

 

 

gennaio 1993