Rumori

di Valerio Magrelli

 

 

 


  Ormai non è più questione di ipersensibilità o misantropia: nessuno riesce più a tollerare l’urto dell’onda sonora in cui viviamo costantemente immersi come in un’acqua madre. La prima cosa che colpisce è l’impressionante varietà di sti- moli: dal traffico ai cantieri edili, dai condizionatori d’aria agli allarmi antifurto, dagli animali domestici alla voce umana, dalle musiche nei negozi ai segnali ra- dio-televisivi negli appartamenti, tutti i pretesti sono buoni per offendere l’al- trui diritto al silenzio. Alla radice di questo imbarbarimento sta infatti l’aboli- zione di questo diritto, o meglio, il più completo oblio delle motivazioni su cui esso si fonda. Nelle sale d’attesa o negli aerei, nei torpedoni o nei ristoranti, re- gna oggi una vera e propria paura del vuoto uditivo. È appunto tale horror vacui che spinge i nuovi mostri a farcire l’aria di suoni, rumori, notiziari, qualsiasi co- sa, insomma, pur di sfregiare l’intollerabile percezione del silenzio.

  Già qualche tempo fa si discusse dell’invasione acustica che ha irrimediabil- mente trasformato le nostre città con il diffondersi dei dispositivi di allarme. Grida insistenti, trilli, impulsi, intermittenze: la fittissima rete degli antifurto, è stato scritto, ha finito per ridurre il nostro paesaggio ad un unico, sterminato detector. Il messaggio lanciato è sempre uguale, e corrisponde alla lallazione di una proprietà privata colta nel suo aspetto ferocemente particolaristico. Le più embrionali regole della convivenza civile non hanno importanza rispetto al fur- to del veicolo. Ciò che più sorprendeva, dinnanzi a questa brutale manomissio- ne, era soprattutto l’acquiescenza generale. Tuttavia, a distanza di poco tempo, la reazione dell’opinione pubblica mostra quanto profondo sia diventato il fa- stidio, il dolore, per questa violazione dello spazio privato.
  In un vecchio intervento apparso sul «Corriere del Ticino», Guido Ceronetti ha ricordato come per Carl Jung la passione giovanile a produrre rumore con la moto si ricollegasse a un istinto tacitamente suicida. Partendo da queste rifles- sioni, Ceronetti si è soffermato sull’essenza dionisiaca della musica giovanile, osservando: «Nella sua irresistibile ascesa, il rock ha sacralizzato dappertutto l’istinto suicida, innalzando negli stadi e nei palasport degli immensi templi provvisori al Dio del Rumore, coagulato in ritmi di cozzo stellare e di simulate aggressioni belliche, in combinazione con urla di vittime sacrificate al parossi-smo dell’eiaculazione sonora dei sacrificatori ».
  Pur limitandosi a indicare il carattere in certo modo amatoriale e artistico del caos, l’invettiva coglieva perfettamente la sua radice nichilista, distruttiva e au- to-distruttiva. Ma in un secondo articolo, quasi a proporre un antidoto per quel quadro sconvolto e malato, Ceronetti è tornato sull’argomento tratteggiando la immagine di un giovane seduto in metropolitana o in treno, «una testa con la nuca attraversata da un filo nero che sui due lati termina negli orecchi». Rispet- to al rombo della folla, ecco l’individuo che coltiva la sua passione in silenzio, ripiegato su se stesso. Tutta la descrizione è attraversata da un evidente senso di simpatia: «Dev’essere qualcuno che si è messo in comunicazione con l’armo- nia delle sfere, o intento a catturare gli inudibili lamenti di una supernova. Sia lui che io non amiamo il contatto eccessivo con i suoni che ci avviluppano, e vorremmo essere isole».
  Ahimè, Ceronetti sbagliava. Chiunque sia costretto a andare in ferrovia cono- sce bene l’irritante brusio del walkman. Qualche tempo fa Grazia Cherchi ha commentato con affetto la frase latina in angello cum libello (in un angolino con un piccolo libro). Ebbene, provate a farlo in treno, circondati dai replicanti con gli auricolari. Questi drogati da walkman, perdutamente allacciati alla loro fle- boclisi sonora, ricorrono alla musica con l’identico spasimo dato dall’astinenza. Ma il punto è un altro, cioè, ancora una volta, l’illusione del silenzio. In verità, i loro apparecchi sono per così dire «a senso unico». Chi li usa, si isola per en- trare in un mondo iperuranio, però chi gli sta accanto è obbligato a «sentire» il suo isolamento. Questi congegni sono trita-musica, filtri, depuratori. Il fortuna- to possessore gode, e agli altri non rimane che la pula, le scorie, i residui passati al setaccio uditivo. Certo, non è come una radio a tutto volume, ma il principio è lo stesso: estasi parassitaria. Il prossimo, il vicino, è comunque chiamato a subire, a pagare con il proprio dispiacere il piacere altrui.
  Forse un lontano giorno chi domanda silenzio riuscirà a ottenerlo. Forse, al contrario, si finirà per giungere a un sistema di filodiffusione onnicomprensivo e capillare, capace di inserirsi nei cimiteri, dentro ai loculi, fra le tombe, via-ba- ra. D’altronde, non ci sarebbe di che stupirsi: se ogni civiltà ha donato agli e- stinti il tesoro per lei più prezioso, è logico che la nostra lasci ai propri, come dolce viatico, il suo supremo bene, ossia il rumore. O forse tutto ciò è inestri- cabilmente connesso alla nostra cultura mediterranea, come suggerì Wystan Hugues Auden in una splendida poesia intitolata Good Bye for the Mezrogiorno. Lontani dal gotico Nord, spiega Auden, diversi dai pallidi figli delle patate, del- la birra o del whisky, i greci e i loro eredi non possono che nutrirsi di un fragore necessario, sostanziale, teologico: «Potrebbe essere questa la ragione / per cui tolgono i silenziatori alle loro Vespe, / alzano al massimo il volume delle radio,

/ e festeggiano con i botti ogni minimo santo-rumore / come una formula ma- gica, un modo per dire / Buu alle Tre Sorelle: “ Saremo pure mortali, / Ma in-tanto siamo ancora qua! ”».

 

 

 

 

 

dicembre 1993