Il narcisismo mitico nella poesia di Gaspara Stampa 

                                         di Gabriele Niccoli

 

 

 

Fra le molteplici fabulae che popolano quel mondo-testo fantasio- so e al contempo veristico qual è la mitologia classica troviamo an- che quella, fra le più ripercorribili ancorchè fra le più facilmente de- cifrabili, della languida Eco che si innamora perdutamente, è il ca- so di dirlo, del giovane e affascinante Narciso.

Fissandolo intensamente - sovente lo sguardo fisso si genera lecitamente nella femmina - sul palcoscenico boscoso, spazio privilegiato del discorso amoroso, la bella Eco, resa purtroppo tale dal suo mitico bavardage e potendo quindi solo mimetizzare le istanze narrative del maschio, non riesce che a confonderlo e ir- ritarlo. Postulando la sua postazione scenica di amante in limine, la dolce e per molti versi tragicomica ninfa si lascia melodrammaticamente languire, velata dalle penombre di una cavernosa dimora. Il pretestuoso ed esoso Narciso, nel frattempo, viene raggiunto dagli strali della ineffabile vendetta divina che gli intrappola l’animo in una fonte, facendogli bramare solo il proprio riflesso. Strana e fatale patologia, questa, una sorta di mitologica ambigua bulimia che condurrà ben presto lo sventurato e paradossalmente consunto pseudo-amante alla tomba. Tomba-fonte, se si vuole, la cui lapide è un bel fiore vermiglio, mentre in una non lontana grotta, fra le meandriche stilate di una rupe, si sente, lieve, la extradiegetica sinonimia di un fil di voce.

Sin dagli albori questa suggestiva e avvincente favola greca si impone con ca- nonica malleabilità nel labirinto segnico della letteratura occidentale, e nel ge- nere lirico in modo particolare. Omologata ad altri testi e messaggi, questa struttura topologica portante delle ingegnose metamorfosi dell’amante non cor- risposto ricalca tutta una falsariga solcata dalla drammaturgia alla novellistica alla storiografia per trovare anche una sua considerevole fortuna nel variegato filone della lirica cinquecentesca femminile di stampo petrarchesco-bembiano. Si potrebbe addirittura asserire che nel nostro Cinquecento il carattere specu- lare-iterattivo e il ludibrio auricolare inerenti al mito di Eco e Narciso assumo- no quasi un procedimento tassonomico nella produzione lirica al femminile. Ne è un caso Gaspara Stampa le cui Rime, pubblicate postume nel 1554, rivendica- no in parte la funzione autoerotica dell’operato lirico petrarchesco, canonico diritto (nel senso strettamente letterario) dello scrittore-maschio negli ambienti neoplatonici che patrocinano e gestiscono la produzione diffusione e consumo di questo tipo di letteratura  soft  librettistico-sentimentale.

I topoi dell’amore non corrisposto e della morte per eccesso di autocompiaci- mento, una morte la cui chiave di lettura a scopo sessuale va poi rivisitata nelle zone ermeneutiche riproposte dagli spiragli provenzali, riprese dagli stilnovisti e petrarchisti, e infine perfezionate dalla esuberante preziosità dei vari John  Donne, del Cieco Grotto, e dello stesso Shakespeare, sono essenziali ad una e- qua decodificazione delle Rime della Stampa il cui duplice intento è quello di narrare la esclusività della relazione d’amore della Petrarchista con il conte  Collaltino e di raggiungere appropriazioni testuali di espressione poetica svin- colata da componenti storiche o codici linguistici tipici della scrittura maschile. Sotto questo aspetto il canzoniere della nostra Gasparina altro non è che una audace dichiarazione di poetica e, nel contempo, una giustificazione della sua voce narrante, trasgressioni che turbano l’equilibrio del modello stesso. Eserci- tandosi in una ben delineata e probante strategia retorica di contaminatio per quanto riguarda sia le componenti del mito stesso che quelle autobiografiche, la Stampa presenta se stessa come immagine speculare della maschilità riflessa, autonominandosi addirittura (e poi tra l’altro era d’uopo) Anassilla per meglio echeggiare la estetizzante classicità del latinigeno fiume che bagna il feudo del suo adorato conte. Al cospetto del suo Collaltino-Narciso, forte attivo domi- nante nobile ed egoista, Gasparina funge da specchio. Tale è la sua appartenen- za, o meglio estraneità, alla storia o, se vogliamo, al canone letterario. E lonta- na da lui, impegnato com’è in imprese militari in Francia appunto per una fat- tiva costruzione e appropriazione della storia, e non potendo riflettersi nella di lui immagine, Gasparina si trova di nuovo ai margini della storia (fuor d’ogni ra- gione) e così, annidandosi inerme nella cavernosa dimora e echeggiando gli ata- vici lamenti del suo sesso, dà adito a dolenti sospiri:

Credete ch’io sia Ercole o Sansone / a poter sostenere tanto dolore, / giovane e donna e fuor d’ogni ragione, / massime essendo qui senza il mio core / e senza voi a mia difensione, / onde mi suol venir forza e vigore? (CXLII).

Rosa dalla indifferenza del conte impegnato, come si è accennato, a far storia, il suo continuo penare – così, senza aver vita, vivo in pene…/ senza mai sparger seme, avien ch’io mieta…(CXXIII) – la conduce a un grado di dissolutezza masochisti- ca che non è dissimile dalla voragine velatamente sessuale in cui si è lasciato morire con soave autocompiacenza Narciso:

Straziami, Amor, se sai, dammi tormento, /…fammi pur mesta e lieta in un momento/ dammi più morti con un colpo stesso / fammi essempio infelice del mio sesso…(CLIV).

Gasparina le accarezza volentieri, queste multiple morti, vivendole, con spe- culare o narcisistico abbandono – gravata sì da l’amorosa soma,/ che mi veggo morir, e lo consento (LXIX) – nonostante questo processo di autogratificazione sia so- vente alimentato dalla speranza di un eventuale spostamento di sguardo da parte del bel conte:

Rivolgete talor pietoso gli occhi / da le vostre bellezze a le mie pene (XXII).

Ma malgrado il tentativo di appropriazione persino delle caratteristiche più i- donee ai ritmi scenici dell’amato, Gasparina rivendica generalmente a sé la per- sona testuale di Eco, assegnando al tempo stesso al suo signore il ruolo privi- legiato di Narciso, rapporti paradigmatici tra l’altro verificabili attraverso una accurata analisi dei moduli lessemici atti appunto a conferire una consistente figurazione della bocca alla poetessa, e un’altra, quella degli occhi, al conte. Spesso però, come si è potuto appena constatare, e date le improbabili aperture ottiche da parte dell’autofocalizzato conte, è la ninfa stessa, Gasparina-Anas- silla che si investe dovutamente della giusta immagine di Collaltino, dei suoi occhi, spostando di nuovo lo sguardo dalla fonte allo specchio e in tal guisa in- trappolando sia il mitico e sensuale puer senex sia il proprio riflesso nello spec- chio delle di lei brame, tanto per aggiungere un tocco di icastica intertestuali- tà:

Chi vuol conoscere, donne, il mio signore, / miri un signor di vago e dolce aspetto, / giovane d’anni e vecchio d’intelletto, / imagin de la gloria e del valore: / di pelo biondo, e di vivo colore, / di persona alta e spazioso petto, / e finalmente in ogni opra perfetto, / fuor ch’un poco (oimè lassa!) empio in amore.(VII)

Questo invito al suo sesso di giocare con lo specchio, di dilettarsi nel ludo voyeuristico-autoerotico e, così facendo, di trasformarsi specularmente riflet- tendosi nell’oggetto idealizzato del proprio desiderio, ci sembra - a parte la eco lacaniana del costrutto dell’Io attraverso l’Altro - un palese tentativo di appro- priazione dello specchio stesso, dello specchio, in altre parole, vissuto e come espressione del legame fra il soggetto e l’Altro e come metafora della mise en  a- bîme di un ritrovato e rivalutato linguaggio lirico. Il trasferimento semantico i- nerente a queste attività  speculari procura in effetti una specie di metalinguag- gio teso ad una ridefinizione dell’Io nel contesto della esperienza femminile e della scrittura al femminile tout-court. Che la metamorfosi e, di conseguenza, l’appropriazione siano state raggiunte lo si vede già dall’inizio della sestina ap- pena citata che intende riproporre una vera e propria riscrittura, - E chi vuol poi conoscer me, rimiri / una donna in effetti ed in sembiante / imagin de la morte e de’ martiri(VII) – riscrittura volta a potenziare il proprio corpo, e per evidente sillogismo, il proprio testo-immagine. L’enfatico invito («rimiri») a prendere una rinnovata visione della «imagin» autentica della interiorizzazione della relazio- ne amorosa sembra voler valorizzare non solo  l’attendibilità del discorso amo- roso ma la metafora stessa dello specchio come luogo privilegiato della tensio- ne fra il linguaggio maschile e quello femminile in quegli spazi misogini quali e- rano appunto quelli in cui venivano captati i labili languori della Stampa.

In seguito agli sguardi penetranti di Luce Irigaray nello specchio della lette- ratura ci sembra più che mai giusto asserire, particolarmente per quanto riguar- da la produzione lirica di Gaspara Stampa, che nel campo della letteratura oc- cidentale è spesso giocando con lo specchio che la donna riesce a parlare e ad agire pubblicamente. Come si è cercato di illustrare, Gasparina fa suo il mito di Narciso ed Eco e, contaminandone la variantistica dei percorsi ermeneutici e letterari, attua nella autobiografica finzione delle sue rime un processo di strut- turazione dell’Io ancorato sulla gestualità della propria libido riflessa nello specchio della mitica fonte.

Pur attenendosi rigorosamente agli attributi canonici delle ninfa non corri- sposta in amore, la nostra Gasparina-Anassilla riesce tuttavia ad oltrepassare il segno, arrogandosi anche il culto feticistico del proprio corpo (e del proprio te- sto) rispecchiato in quello, canonico, del maschio. Una mostruosa trasgressio- ne nelle prime penombre controriformistiche del Cinquecento? Il tono falsa- mente autoconfessionale della nostra non offre che una valenza specularmente ambigua al nostro quesito:…sì che può dirsi la mia forma vera, / da chi ben mira a sì vario accidente, / un’imagine d’Eco e di Chimera. (CXXIV)

 

 

 

aprile 2000