La democrazia
internazionale non è più un sogno,
ma una necessità e una
possibilità
di Pierluigi Onorato
Coloro che se ne intendono sanno che ogni progresso storico è relativo. L’u- manità
che progredisce su un punto, in genere arretra in un altro o più esatta-
mente si espone a rischi prima sconosciuti. Così è avvenuto quando la
civiltà europea ha partorito dal suo seno lo stato nazionale
moderno: la concentrazio- ne della sovranità - cioè della forza - entro i
confini della nazione ha delegitti- mato l’uso della violenza, nei conflitti interni
alla comunità nazionale (ecco il progresso), ma ha anche proiettato la
violenza fuori di quei confini legittiman- do la guerra come struttura delle
relazioni internazionali (ecco il rischio regres- sivo).
L’umanità sta oggi vivendo un passaggio storico altrettanto fondamentale,
di cui sarebbe stolto non cogliere appieno l’ambivalenza: non tanto per
rifiutare il progresso, quanto per risolvere positivamente il rischio ad
esso immanente. Mi riferisco al «meraviglioso» 1989 e alla fine della
contrapposizione dei blocchi militari intorno alle due superpotenze. È
finita l’era del terrore nucleare e l’u- manità intera ha tirato un
sospiro di sollievo.
Ma allo scatenarsi della guerra del Golfo già qualcuno ha cominciato a
rim- piangere i vantaggi dell’equilibrio bipolare. La caduta del muro di
Berlino ha dissolto un incubo che intristiva da decenni la diplomazia
mondiale. Ma subito qualcuno ha sollevato timori per la prospettiva di una
Germania unita. E quan- do la politica monetaria adottata dalla Bundesbank
per sostenere il costo della unificazione ha mandato all’aria i meccanismi
istituzionali dell’integrazione eu- ropea e messo impietosamente a nudo la
fragilità di economie come quella ita- liana, quei timori si sono
materializzati in controspinte molto più corpose.
Non bisogna sottovalutare le controspinte e i pericoli che gli
avvenimenti ri- voluzionari dell’89 possono innescare, a cominciare
dall’esplosione del partico- larismo etnico. In ogni caso, se vuole
salvaguardare davvero il valore inestima- bile connesso al crollo del
totalitarismo comunista e alla fine del bipolarismo planetario, la
comunità internazionale deve trovare la spinta ideale e gli stru- menti
istituzionali necessari per affrontare i rischi storici che la nuova era
ha aperto o anche soltanto acutizzato.
Per limitarsi al rischio principale, è urgente impedire che la fine del
bipolari- smo USA-URSS apra la strada a un monopolarismo militare capace
di strumen- talizzare ai propri fini anche le istituzioni internazionali
destinate a salvaguar- dare la pace. Se la guerra del Golfo, sia pure al
fine di ristabilire una sovranità calpestata, è decisa e condotta da
questa incontrastata Potenza planetaria, se- condo i suoi particolari
criteri e interessi, emarginando o strumentalizzando la ONU e la sua
Carta, gli effetti perversi non si limitano a quella guerra, ma si
proiettano nel futuro.
Non solo la violenza si scatenerà senza regole e senza alcuna necessità
rispet- to allo scopo (chi non ricorda i soldati iracheni massacrati e
carbonizzati men- tre ormai fuggivano dal Kuwait?), non solo si spargerà
sangue inutile e inno- cente; ma anche si priverà per lungo tempo di
legittimità e di effettività qual- siasi monopolio della forza in testa al
Consiglio di Sicurezza secondo i princìpi del Capo7 della Carta, qualsiasi
istanza sovranazionale di polizia dei conflitti resterà impraticabile. La
conferenza di pace sulla Palestina nascerà fragile, alla insegna dei
rapporti di forza storicamente dati e degli interessi imperiali in gio-
co, piuttosto che sotto le bandiere della giustizia e del diritto. E
quando esplo- derà la terribile crisi jugoslava la comunità mondiale
assisterà impotente alla guerra fratricida, perché da una parte la Potenza
egemone questa volta non a- vrà interesse ad intervenire, e dall’altra gli
strumenti delle Nazioni Unite - tar- divamente attivati - riveleranno
clamorosamente il loro deficit di effettività e di legittimazione.
Se una cosa la guerra del Golfo ha rivelato è che le funzioni di polizia
interna- zionale, per essere effettive e legittimate dal consenso di tutta
la cornunità de- gli stati, devono essere gestite direttamente da
organismi sovranazionali sot- tratti alle strumentalizzazioni delle
potenze imperiali di turno. La fine dell’e- quilibrio bipolare ha
sicuramente aumentato il rischio di questa strumentalizza- zione. Ma
d’altra parte ha anche per la prima volta reso storicamente possibile quel
monopolio internazionale della forza in capo al Consiglio di sicurezza
«so- gnato» dai promotori della Carta delle Nazioni Unite: a impedirne la
realizza- zione era stato infatti proprio quel clima di guerra fredda tra
i due blocchi, che si è ormai storicamente dissolto.
Ecco quindi il punto di impegno politico, dopo la svolta del 1989.
La fine del bipolarismo, per scongiurare i rischi involutivi in essa
immanenti, deve condurre alla costruzione di una reale democrazia
internazionale, in cui un’autorità sovranazionale reale abbia
autonomamente la forza (anche militare) per esercitare coattivamente le
funzioni di giurisdizione e di polizia necessarie per la soluzione dei
conflitti internazionali. Se questa costruzione non sarà in- nalzata,
continuerà ad essere la guerra e la legge del più forte a costituire il
fon- damento strutturale della comunità mondiale; e nessuno potrà evitare la
ricor- renza continua di tragedie come quelle della Jugoslavia, o della
Somalia, o del conflitto arabo-israeliano.
Quelli che se ne intendono sanno che costruzioni del genere sono lente e
tra- vagliate, e ci ricordano che anche l’edificazione dello stato moderno
ha richie- sto un travaglio di secoli. Ma ormai c’è una considerazione che
rende più breve la prospettiva, o comunque dà fondamento realistico
all’impegno politico. Ed è che il progresso storico ha integrato il
pianeta in unità biologica, ecologica, cul-turale ed economica. E lo stato
nazionale, come forma assoluta dell’organizza-zione politica, è ormai
oggettivamente inadeguato a questa inarrestabile unifi-cazione.
luglio1992
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