L'umanità al crocevia dei millenni

Notizie su me stesso

di Marin Sorescu

 

 

Abito nella provincia Europa, verso cui precipita da tutte le parti il terzo millennio: il fenomeno, osservato dai satelliti, viene quoti- dianamente annunciato da terremoti, inondazioni ed altre catastro- fi.

Se il duemila non segnerà la fine del mondo, di certo non segnerà neanche la fine della letteratura. E se non sparirà la letteratura, non sparirò neppure io, e lo dico con Orazio, il quale credeva che il più duraturo dei monumenti fosse quello in bronzo. Mentre sto scrivendo queste righe, il pianeta è  pienamente in possesso dell'uomo. Non c'è più posto per altri animali, per la natura, quasi non c'è più posto per il pianeta stesso. Ci sposteremo nelle stelle mediante un siste- ma di trasporto pubblico ancora da definire. Sotto il cielo inquinato e carico di fulmini e piogge acide, gli scrittori mantengono la loro calma, la loro lucidità ed il loro ottimismo. Ogni tanto si incontrano per parlare di letteratura, la pacifica forza dell'anima umana.

Non sono stato capace di fare altro fuorché scrivere: vana caccia al vento.

Cerco di tenere in equilibrio le parole, che delle volte tendono a svuotarsi dei loro significati. Uno scrittore romano definiva il poeta come  «guardiano del fa-ro». Quando il significato esce fuori dalla parola, cerchiamo di ricacciarlo o di tenere il faro acceso per quelli che potrebbero smarrirsi sul mare.

Scrivo in lingua romena, cioè nel latino conservatosi vivo ed evolutosi nella terra della Dacia - per me il primo poeta romeno è Ovidio, esiliato da Roma a Tomi (oggi Constanţa) - dal latino nella lingua degli oriundi dal Ponto Eussino.

Non si sa dove sia sepolto Ovidio. Il nostro folclore ed i poeti romeni cercano la sua tomba nella lingua romena. Viaggiando,  ho capito meglio il suo dramma.

Quando mi trovo all'estero, non posso scrivere se non epistole, di solito episto-

le tristi, come lui. Il romeno è una lingua egoista e per sentirmici a mio agio debbo essere a casa.

Ho notato che la disposizione ad imparare altre lingue è inversamente propor-zionale alla superficie del paese d'origine. Gli anglofoni preferiscono che sia io a parlare la loro lingua, anche se storpiandola. I paesi nordici sono poliglotti: i grandi glottologi e poliglotti sono reclutati tra i danesi, gli svedesi, gli olandesi, i lussemburghesi. Se esistesse un paese con un solo abitante, costui dovrebbe parlare tutte le lingue del mondo. Per essere capito bene. Per non essere frain- teso. Per spiegarsi. Per esistere.

Questo locutore di tutte le lingue del mondo esiste davvero: è il poeta. Il poe-ta universale, lo scrittore in generale. Egli scrive nella lingua del granoturco e viene capito; scrive nella lingua dell'equatore e viene capito al Polo nord.

Gli scrittori sono i paesaggi, le forme di rilievo di una lingua. Chi non capisce un mare, una montagna, un fiume, una gru oppure un ibis? Riposo su una gam-ba sola in una palude sulla terra malferma del Delta del Danubio e sto amma-gliando i serpenti variopinti della lingua romena.

Aneliamo ad essere  gli esponenti di un'anima collettiva. Il soggettivismo di- venta esponenziale.Siamo tanto più rappresentativi quanto siamo noi stessi, sa- turi del tempo e dello spazio che abitiamo. Lo scultore Constantin  Brancusi, il compositore George Enescu e lo scrittore Panait Istrati, nati nello stesso spazio romeno, sono per me modelli viventi e soggetti di riflessione sull'arte diventata necessità vitale e terapia dell'anima.

«Sono nato per portare la felicità», diceva Brancusi.

 Ho il pregiudizio della concisione, pertanto il mio lavoro ad un romanzo-fiume (ogni scrittore deve ovviamente dare alla luce un romanzo-fiume) non va avanti. Cinque buoni romanzi-fiume irrigherebbero un intero Sahara. Ma il de- serto avanzerebbe lo stesso in un'altra parte del mondo. Ci sono parole che si imparano molto tardi, ma che poi ti ossessionano. Ad esempio la parola stress, che ha invaso il pianeta prima del terzo millennio. Cerco di farne un ombrello che mi ripari dalla parola inquinamento, dalla parola guerra, dalla parola terrorismo, dalla parola pirateria, dalla parola morte. In ciò che scriviamo chiudiamo una parte della nostra anima, come un antidoto contro la morte. La Romania è un paese molto bello e sulla mappa rassomiglia ad una ruota (una parte della sua circonferenza è il Danubio), oppure ad un cerchio formato da un da un'elica rotante, in volo.

La nostra cultura equilibrata e conservatrice è ancora, fortunatamente, attac-cata ad una folta radice folclorica. In una discussione che ho avuto tempo fa con il poeta Léopold Sédar Senghor, questi mi aveva fatto notare una somi- glianza tra l'arte primitiva africana e l'opera dello scultore Brancusi, che aveva stilizzato lo spazio nella maniera del contadino romeno. Nelle profondità del tempo scorrevano gli stessi fiumi emozionali. Gli archetipi sono ovunque gli stessi. I popoli sono affratellati per le loro radici. E se è vero che i continenti tendono ad allontanarsi geograficamente - a causa di non si sa quali movimenti tettonici - una legge dell'inerzia ci chiede invece di ravvicinarci e di somigliare nelle aspirazioni, negli ideali, nei modelli di bellezza.

La ricchezza del folclore non ci impedisce di avere una fiorente cultura mo-derna. I romeni hanno la vocazione del nuovo, della ricerca, il loro spirito è ir-requieto ed esploratore. Il nostro contributo alle correnti di avanguardia è stato notevole. Il surrealismo, il dadaismo, l'assurdo sono legati ai nomi dei romeni Urmuz, Tristan Tzara, Eugène Ionesco. Per quel che riguarda la letteratura o-dierna, vi posso assicurare che essa è ricca, generosa e sincronica. I critici lette-rari discutono anche da noi sul postmodernismo.

Ed eccomi di nuovo tornato a me stesso. Mi accade qualcosa di strano. Scri-vo una piccola storia della poesia romena, ovviamente dalle origini fino ai no-stri giorni. Lavoro contemporaneamente ad ambedue le estremità, con il meto-do dei costruttori di gallerie. Quanto più procedo, tanto sono preso dalla paura che i miei tunnel non si incontreranno. In un modo appare la poesia se la guardi dalle origini verso il presente e in un modo del tutto diverso la valuti dal pre-sente verso le origini.

Quindi il mio dilemma sarebbe: scrivere una sola storia della poesia, oppure due? La poesia romena è molto più ricca del mio apparato critico. Pertanto è una poesia vivente.

Ho scritto alcune pièces di teatro. Potrei anzi dire che ho speso la maggior par-te del mio tempo con il teatro. Quando intervengo a festival teatrali non dico più che sono anche poeta. Questo per conservare il mio prestigio. Per i comme-diografi la poesia è qualcosa da fare nel tempo libero, qualcosa di non redditi-zio. Segretamente però sono molto fiero di essere poeta. Ho ricordato Orazio, il quale diceva, con molta paura: Quinque tentabam dicere versum erat  (tutto ciò che cercavo di dire diventava verso). Con la stessa paura ora rileggo queste righe: non si tratta forse sempre di versi? Sarebbe un peccato, perché mi è stato chiesto di produrre un frammento in prosa (non un brano di quel romanzo-fiume che non mi va, perché ho il pregiudizio delle sorgenti e dei cristalli di lacrime). La cosa più difficile mi sembra arginare l'invasione dalle impressioni, dalle confessioni e dall'infinità dei particolari.

Mi è stato semplicemente chiesto di parlare, in prosa, dell'umanità al crocevia

dei millenni.

Ho trovato più facile scrivere su di una particella del mondo, al crocevia dei millenni, cioè di me stesso: angosce, speranze, schede di temperatura.

Senza di me questa fine del millennio sarebbe un nonsense (così la pensano tut-ti). E come mai potrebbe cominciare un nuovo millennio senza di me? Eccomi dunque al crocevia.

Se fossi vissuto quattromila anni prima  - in Egitto, ad esempio - sul filo del passaggio tra due millenni, sarei stato sconvolto dai segni palesi della decaden-za: i templi vanno in rovina, gli uomini credono sempre meno negli dèi, non si ricordano più chi ha costruito le piramidi, il deserto avanza, il Nilo produce delle alluvioni caotiche, alcuni dei suoi sette bracci cominciano ad infangarsi. Mentre io, lo scriba, accomodato nella posizione rituale, con il papiro disteso nel grembo, avrei chiesto in modo retorico al Sole (il dio Ammon Ra): Signore, ma vale ancora la pena  fare dei conti?

Questa domanda pessimista si è reincarnata e persiste.

 

Queste sarebbero, in breve, le ultime notizie su di me, dalla fonte più autore-vole. Vale a dire su una particella del mondo, al crocevia dei millenni.

 

 

 

 

 

gennaio 1995                                                                                             (traduzione di Şerban Stati)