Il Fondo monetario internazionale

     dichiara guerra alla Bolivia

 

     di Diego Cuzzi

 

 

L’FMI, dominato - come ormai generalmente si scrive - dal cosiddetto “Washington consensus” e dai teorici ad  oltranza della teoria monetaristica, ha imposto a inizio 2003 condizioni pesanti alla Bolivia per riaprire i cordoni della borsa dei prestiti a sostegno di uno dei paesi più po- veri del mondo che ha comportato, tra l’altro, un aumen- to del 14% del prelievo fiscale e inoltre una contestuale ulteriore riduzione della spesa pubblica: come dire ad ogni singolo cittadino che pagherà più tasse allo stato per ottenere meno servizi di quelli giù ridotti al lumicino che riceveva finora? Ne sono seguite sommosse come ormai non se ne vedevano da decenni nel pur turbolento paese andino, con una vera battaglia tra esercito e polizia che ha fatto più di cento morti. Il risultato è che il già vacillante governo democratico ha dovuto ritirare a furor di popolo la stretta di cinghia che l’FMI pretendeva di imporre, a cui sono seguite le dimissioni di tutti i ministri.

Ma perché questa armata, guidata da banchieri invece che da generali, ha in- trapreso una guerra che in una settimana ha già messo a terra un governo de- democratico a fatica costruito in un paese che precedentemente aveva visto succedersi 19 presidenti della repubblica in poco più di vent’anni, nessuno dei quali è riuscito a completare il proprio mandato? Eppure dall’inizio degli anni ’90 la Bolivia rigava diritto, impegnata tra l’altro a restituire più danaro di prestiti ottenuti in passato di quanto non ne ottenesse in nuovi prestiti.

Sul perché il paese non vive senza prestiti esterni il conto è presto fatto: 7 milioni di abitanti, sparsi in un territorio tre volte quello dell’Italia, prevalen- temente montagnoso, con un reddito pro capite di meno di mille dollari all'an- no, pari a un mese di stipendio in Italia, e tuttavia con una distribuzione della ricchezza tale da mantenere l’80% della popolazione sotto la soglia della po- vertà. Inoltre, dopo Colombia e Perù, la Bolivia è il terzo paese coltivatore di droga nel mondo. Il reddito nazionale di questo sfortunato paese è di solo 8 mi- liardi di dollari, di cui lo stato preleva la metà, ma il suo indebitamento verso l’estero è di oltre 5.800 miliardi di dollari.

La Bolivia era stata negli ultimi anni un discepolo prediletto degli Stati Uniti - elezioni regolari, lotta alla droga, apertura del mercato - tanto da meritare il plauso del presidente Clinton. Ma tutto questo non è bastato: per riaprire i cor- doni della borsa l’IMF ha preteso che lo stato boliviano la finisse di chiudere i bilanci in deficit e quindi inasprire la tassazione su un popolo ridotto in mise- ria. Diversamente da quanto accade nell’Iraq, non c’è stato bisogno di ammas- sare truppe alla frontiera: è bastato che un banchiere dell’IMF ponesse al go- verno le condizioni per riaprire i prestiti.

Il risultato di tutto ciò è peggiore di quanto potrebbe essere dopo una guerra guerreggiata e perduta. La povera ed arretrata Bolivia - che gli idrocarburi per la verità li avrebbe ma non riesce a trovare i soldi per svilupparne i giacimenti e trasportare la produzione verso i luoghi di consumo (Brasile e Stati Uniti) - non può certo minacciare nessuno, se non i propri cittadini: il governo democratico ha perso ogni credibilità prima imponendo e poi ritirando provvedimenti odiosi e irrealizzabili, l’FMI non avrà la soddisfazione di veder realizzate le proprie farneticazioni, la Bolivia non avrà i prestiti che le sono indispensabili, sia per uscire dalla miseria, sia per iniziare un ciclo di sviluppo, ma sia anche per ripa- gare i debiti già contratti e certamente mal utilizzati dai governi passati ma or- mai andati in fumo. La notizia è stata all’onor della cronaca per qualche giorno e a una settimana di distanza ci si può aggirare invano per internet nel tentativo di rintracciarne qualche eco: il silenzio si richiude sulla povera Bolivia fino a che la prossima pensata dell’FMI non ridarà fuoco alle polveri.

 

Cui prodest? Si direbbe che questo è uno di quei giochi nel quale sono spe- cializzati ormai da anni i banchieri del “Washington consensus”, un gioco nel quale tutti i giocatori perdono: Quindi nessuno guadagna nulla, ma almeno si può cercare di tirarne una riflessione?

Questo sì ed il risultato della riflessione va al di là del caso Bolivia. Comin- ciamo con il chiederci chi sia l’IMF (o FMI in sigla italiana) e perché si vada ag- girando nel mondo creando disastri dovunque approda.

 

L’IMF fu costituito nel 1944 quando i prossimi vincitori della seconda guerra mondiale si cimentarono nel tentativo di offrire al mondo, esausto per la car- neficina all’epoca ancora in corso, un ordine migliore anche sul terreno eco- nomico, seguendo le teorie del massimo economista di tutti i tempi - John Mai- nard Keynes. La colonna portante del nuovo ordine economico era costituita dal sistema dei cambi fissi, allo scopo di dare certezza e sviluppo agli scambi internazionali, riferiti alla costante parità oro/dollaro USA, quindi garantita pri- ma di tutto dal governo americano. In questo quadro l’IMF aveva il ruolo di prestare i soldi ai paesi che si trovassero in transitoria difficoltà a mantenere il cambio fisso in modo da dar loro tempo per riportarsi in competizione a livello mondiale: perché anche allora, nei venticinque anni nei quali funzionarono gli accordi di Bretton Woods esisteva e funzionava benissimo (mentre ora funzio- na malissimo) il mercato globale.

Nel 1971 il presidente USA Nixon prese, per ragioni peraltro comprensibili di politica interna, la decisione di non sostenere più con il dollaro il sistema di Bretton Woods e quindi il mondo riprecipitò nel disordine dei cambi liberi (iro- nia della sorte la parola libero qualifica una situazione di grande crisi proprio della libertà e capacità di autodeterminazione dei governi democratici), dal quale fino ad oggi non si è risollevato.

Le situazioni cambiano ma le istituzioni sono dure a morire: così l’IMF, in- vece di andare a meritato pensionamento, poiché senza cambi fissi non esi- steva più il mestiere di difenderli, si mise un altro vestito, più bello di prima, e iniziò a girare il mondo dando a destra ed a sinistra consigli per lo più non ri- chiesti e richiestissimi, anche se molto magri, prestiti. In tutti questi oltre trenta anni della sua seconda vita - vita da zombi evidentemente - l’IMF si è inge- gnato a consigliare azioni paradossali come se invece di trovarsi nella giungla dei cambi liberi i paesi si trovassero ancora nell’ordinato mondo immaginato da Keynes. Naturalmente si fece un gran parlare di riforme, come sempre si fa quando si opera in un sogno surreale di tipo kafkiano. L’IMF inoltre nel dare cattivi consigli ha la stessa abitudine contratta dai vip di tutto il mondo: non pagare mai i conti e andarsene elegantemente come se i danni causati fossero un segno distintivo della ineluttabilità di un mondo mal combinato ma nel qua- le gli unti dal Signore hanno comunque diritto a uno sconfinato rispetto.

 

Siamo arrivati a un punto finale di un’analisi per quanto sbrigativa e scher- zosa con una proposta seria: inizi l’Italia a ritirare la propria adesione all’IMF, che fu data dal Parlamento nel 1952, quando fummo riammessi nei consessi in- ternazionali, per ottime ragioni e che per altre ma altrettanto ottime ragioni me- rita ora di essere ritirata. Certo un passo del genere non può essere fatto dal- l’attuale governo, ognuno dei componenti del quale ignora perché si dovrebbe fare qualche cosa di così iconoclastico, ma sa benissimo, con il cuore prima che con la ragione, di far parte di qualche cosa che i detrattori chiamano il Wa- shington consensus” e che l’IMF ne costituisce un apprezzato pilastro. Sarebbe però un buon elemento per un programma alternativo della sinistra di governo, una di quelle tematiche sulle quali è facile essere d’accordo in un momento nel quale non si riesce a esser d’accordo su nulla che non sia fatterello marginale.

Il fatto è che finchè non sparisce l’IMF, e le altre istituzioni-zombi soprav- vissute al crollo dell’ordine internazionale di Bretton Woods, che si sono di- mostrate irreformabili ma pronte a ogni riforma inconsistente e di comodo, non sarà possibile progettare un nuovo ordine internazionale.

 

 

febbraio 2003