Enzo D'Angelo: La stanza segreta di Nino Famà, Sciascia Editore, 2004

 

 

 

 

 

 

 

Fin dall’inizio l’autore mette in tensione la fionda narrativa tra depressione esistenziale e depressione clinica con tutti i rischi che comporta iniziare con note alte, che restano lì severe di fronte a qualunque caduta di tensione, o con l’enunciare un dramma che può aprire il sipario del melodramma.

Il pre-giudizio che in questo modo condiziona subito le aspettative del letto- re può andare incontro a facili disappunti a meno che l’autore non miri a stu- pirlo con un ribaltamento o altro effetto da sorpresa. Ma l’azione non è struttu- ra portante de La stanza segreta e la stessa stanza dei ricordi del nonno non sem- bra costituire la vera alterità spazio-temporale se non riversata in una eventuale sceneggiatura filmica che necessita il susseguirsi di sequenze con sviluppi più o meno inattesi. Dunque non vera e propria sorpresa ma un volo altrove, che porta l’estraneazione nel mito.
  Dentro un presente americano, realistico e cinereo, descritto all’inizio e alla fine del libro, la narrazione divarica per contenere una seconda parte centrale, la più corposa, dedicata ad altri tempi e altri luoghi, quelli del nonno emigrato. Nell’Appennino peloritano di una Sicilia remota, disagiata eppure agognata, in una cordigliera innervata di eremi, deve pur esserci una Macondo, isola nell’i- sola, tanto necessaria quanto irraggiungibile per il protagonista che sente di perdersi e rimane fatalmente sull’orlo dell’abisso. Quelle “cose” che “sembrano perdere ogni significato” fin dalla prima frase del prologo non scoraggiano Ni- cky che, al contrario del Lord Chandos di Hofmannsthal, si lancia nella cerca di significato tra le parole, nei ricordi e nelle radici lontane, lungo i sentieri di u- na archeologia della memoria non sua e perciò con non molte certezze se non quelle della propria disperata speranza. Sì, se il nonno visse a Macondo, Ma- condo esiste; seppur lontana sarà raggiungibile, basta viaggiare, non importa se il viaggio sarà lungo. E il viaggio inizia, dapprima nei meandri della fantasia e, in seguito, prosegue col trasferimento fisico verso il luogo di Toloma o, se vo-lete, Macondo. Ma se poi Toloma-Macondo non esistesse? Dove trovarla?

Ogni lettore troverà la sua risposta…forse pure un suo luogo, fosse anche una sola stanza, forse smarrita, da recuperare e conservare con cura, per poterla frequentare come un tabernacolo o una stanza segreta.

  A cercarsi in un luogo ci si incontra con la sua storia e i suoi miti che, da una provincia all’altra,
gli stessi conterranei facilmente declassano a dicerie o tutt’al più a deboli illazioni.

Invece Nicky o l’autore avvicinandosi a Toloma, nel palese realismo narrati- vo fa avvertire, come se fosse pronta nella pagina successiva, nella filigrana del racconto, l’incubazione dell’analogia e della metafora come un ossequio di chi torna ai miti locali che è anche una ristretta intesa con la gente del luogo, un riconoscersi tra iniziati ai misteri e alle memorie comuni di un preciso sito.

Così, per chi legge tra le righe, appare di sfuggita il principe locale Acontresi  che Tomasi di Lampedusa chiamò Fabrizio Salina; appare gnà Pina, la Lupa di Verga con la sua poesia in prosa, nei sogni agitati di Nicoletta; appare l’eroe classico della discesa agli inferi che a Messina si chiamò Colapesce, s’inabissò per sostenere la Sicilia traballante e qui, col nome di don Mico, scende in un modesto pozzo, come il verghiano Rosso Malpelo nella non lontana miniera, per la manutenzione del perno del mondo, se davvero l’omphalos da Delfi, nella Grecia continentale, si fosse spostato nella Magna Grecia nei dintorni di Mes- sina.
  Ma come evitare di pensare che, forse, queste non siano delle illazioni auto- rizzate da quel tempo ciclico che a Toloma era come “sempre girato attorno a se stesso”?
 
 

 

 

gennaio 2005